da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 23, 2020 | News, Soldati di Ventura
Mercenari e missionari tra mito e realtà
Nell’ottica di una precisa ricostruzione storica di avvenimenti relativi al ruolo dei mercenari italiani in Congo, riporto l’interessante e puntuale ricostruzione fatta dal Maggiore Tullio Moneta sul ruolo di alcuni missionari in quel periodo presenti nello stato africano sconvolto dalla guerra civile e puntualmente raccolta da Giorgio Rapanelli già autore, insieme al sottoscritto, della biografia di Tullio Moneta.
Con grande rammarico, il Maggiore Tullio Moneta del 5 Commando mercenario in Congo deve fare una dichiarazione nei confronti del saveriano padre Angelo Pansa. In un articolo su “Jesus” del 2003, dal titolo “Il missionario dell’Oca Selvaggia” (simbolo del 5 Commando mercenario), Padre Angelo Pansa dichiarava che in Congo fu fatto “colonnello” dal Generale Mobutu, comandante dell’Armée Nationale Congolaise e messo al comando di 45 mercenari di una V Compagnia, di cui facevano parte alcuni mercenari del 5 Commando anglosassone del Colonnello Mike Hoare. Padre Pansa vantava in quell’articolo, come in altri articoli di stampa e in interviste televisive azioni militari umanitarie per liberare centinaia di persone, tra missionari e civili, ostaggi dei ribelli Simba. Cita tra i suoi combattenti pure il noto criminale Ronald Biggs, che con la dinamite creava dalla foresta radure per fare atterrare gli elicotteri con i quali trasportava gli ostaggi verso basi più sicure. Evidentemente padre Pansa non aveva mai visto un elicottero atterrare di una strada, o in uno spazio di dieci metri quadrati… Ma c’è di più: il dinamitardo Ronald Biggs non fu mai in Congo: né prima, né durante la guerra ai Simba, né dopo. Sempre su “Jesus” è pubblicata una foto che mostra alcuni mercenari insieme ad un missionario.
La didascalia su Jesus dice che sono stati gli uomini della V Compagnia guidata da padre Angelo Pansa a liberare il missionario padre Schuster, sfuggito al massacro dei suoi confratelli ad opera dei Simba a Stanleyville. Poi si scopre l’altra parte della foto pubblicata in un sito francese del corpo dei mercenari in Congo, in cui è scritto, in francese “Le lieutenant Kowalski et ses hommes découvrente le pére Schuster”, (il tenente Kowalski e i suoi uomini che scoprono padre Schuster). Nella foto Tadeusz Kowalski è il mercenario con il basco che ascolta padre Schuster. Unendo le due foto si ha la foto intera, di cui la parte sinistra è servita a padre Pansa di prendersi il merito di aver salvato padre Schuster.
Un autentico falso. Soprattutto perché delle gesta di padre Pansa è solo lui, padre Pansa, che ne parla a ruota libera e senza portare prove, con anni di ritardo dalla guerra contro i Simba. Né nel libro “Congo Mercenary” del colonnello Mike Hoare, né in quello del maggiore Siegfried Mueller in “Les nouveaux mercenaires”, di cui faceva parte il tenente Kowalski in tutta la campagna per la liberazione di Stanleyville e di tutto il territorio fino ai confini con l’Uganda e il Sudan, mai è citato un “colonnello” Angelo Pansa, né un missionario combattente di nome Angelo Pansa. Eppure esistono tre foto del padre: una sorridente con il mitra e una didascalia che recita in inglese “Angelo il cappellano scroccone del 5 Commando”; poi altre due con armi in posizione di tiro all’anca, vestito con pantaloncini, camicia cachi senza distintivi, né gradi militari, con berrettino con visiera, probabilmente da boy scout, senza alcun grado…
Da tempo il maggiore Tullio Moneta ha contestato padre Pansa in diversi filmati su youtube. Tullio Moneta ha sempre apprezzato i missionari che aveva conosciuto. Li considerava soldati coraggiosi che combattevano senza armi in una missione a favore dei civili africani, come padre Palmiro Cima, che rischiava la vita sotto gli attacchi dei Simba a Baraka, vicino alla base del 5 Commando; oppure il saveriano padre Silvestro Volta, che aveva conosciuto in Sierra Leone da civile e che lo accompagnava nel suo ospedale di Makeni, in mezzo alla foresta tropicale, a 250 chilometri da Freetown…
Ma quando ha letto negli archivi dei Saveriani che padre Angelo Pansa aveva dichiarato in forma scritta che il col. John Peters, comandante di Tullio Moneta e della base del 5 Commando, succeduto al colonnello Mike Hoare, voleva uccidere i due missionari di Nakiliza per fare ricadere la colpa sui Simba e, peggio ancora che i mercenari sparavano ad una statua della Madonna esposta pubblicamente a Baraka, l’ha mandato fuori dai gangheri. Ha sopportato anni di bugie, da quelle de “L’Unità” e di altri giornalisti e scrittori sui mercenari in Congo, fatti passare da criminali, “da torturatori di prigionieri, violentatori in gruppo di donne, compiendo su di loro spaventose atrocità” come ultimamente ha scritto nel suo romanzo Massimo Valerio Manfredi dal titolo “Quinto comandamento”, con cui ha celebrato le gesta di un missionario “colonnello” guerriero, ispirato da padre Pansa.
Ma la falsità, inspiegabile, da parte di un missionario, Tullio Moneta proprio non se l’aspettava. Inizialmente padre Pansa scrisse a Tullio Moneta tramite me: voleva sapere in che periodo Tullio fu ferito a Baraka. Non glielo scrivemmo, in quanto avrebbe poi affermato che egli era stato a Baraka in quel periodo. Comunque nei quasi due anni – dal settembre 1965 all’aprile del 1967 – in cui Tullio è stato a Baraka, padre Pansa non si è mai visto.
Infatti nessuno lo conosceva. Egli veniva nominato solo dal cuoco greco Triantaphillopulous che diceva “dovremmo fare come padre Angelo che è andato a combattere con i mercenari”. Lo conoscevano quindi solo come “padre Angelo”. Fui io che rivelai a Tullio che padre Angelo faceva di cognome “Pansa”. Lo avevo sentito dire in Congo nel 1966 dal sacramentino padre Giovanni Rottoli, insieme a quello di qualche altro missionario che aveva preso le armi. Se padre Pansa fosse passato a Baraka, l’”intelligence” che controllava la base avrebbe avvisato tutti gli ufficiali e i sottufficiali della presenza passeggera nella base di un secondo missionario di nome Angelo Pansa. Invece, a Baraka è sempre stato un illustre sconosciuto.
In una seconda lettera inviataci, padre Pansa scrisse che tutto ciò che Tullio Moneta aveva scritto e detto era frutto della sua fantasia…
Lasciamo la parola a padre Angelo Pansa che dichiara nella cronaca sugli eventi congolesi, presente negli archivi dei Padri Saveriani:
Scrive padre Angelo Pansa: “Posso anche aggiungere un altro dettaglio: Non erano solo i ribelli Simba che avevano in odio la religione, ma lo stesso comandante di un gruppo di mercenari, colonnello Peter, protestante, aveva in odio i cattolici. Nel suo piano c’ era l’uccisione dei padri di Nakiliza per poi accusare i ribelli di averli uccisi. A Baraka erano proprio i mercenari che si divertivano a sparare alla statua della Madonna in dispregio verso la fede cattolica.”
Padre Palmiro Cima, se ancora vivente, potrebbe dire molto sul colonnello Peters, per l’aiuto da questi dato con scorta di mercenari nel ritrovamento dei corpi dei confratelli assassinati dai Simba. E soprattutto se a Baraka era esposta una statua della Madonna sulla quale i mercenari si divertivano a sparare…
da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 21, 2020 | Accadde Domani, Soldati di Ventura
ACCADDE DOMANI. 25 NOVEMBRE 1981. IL TENTATO GOLPE ALLE ISOLE SEYCHELLES NELLA TESTIMONIANZA DI TULLIO MONETA (Seconda parte)
Lavoro di intelligence
Comunque sia, la pianificazione del golpe continuò.
Nel 1981 Hoare e Tullio fecero un sopralluogo nelle Seychelles. Hoare ripartì, mentre Tullio rimase.
Tullio ebbe contatti con la Résistence, fece un sopralluogo alla stazione satellitare USA sul monte Mahé, controllò l’ambasciata sovietica dall’esterno, disegnò cartine e planimetrie della State House, del Palazzo del Governo, degli uffici del Presidente al Centro Vittoria, dell’aeroporto, dei posti della guarnigione, delle difese antiaree, delle baracche nell’aeroporto dei soldati delle Seychelles, tanzaniani e nordcoreani.
Ritornato in Sudafrica Tullio fece una riunione con i mercenari a casa sua, a Johannesburg.
Il 23 novembre 1981 organizzò una seconda riunione sempre a casa sua a Johannesburg, a cui parteciparono tutti i mercenari, insieme a Pieter Doorewaard e Paddy Henrick del Recce, all’austriaco-svedese Sven Forsell, produttore e regista cinematografico che voleva fare un film sui mercenari, e al noto Kevin Beck.
Alla fine giunse il momento dell’azione: partirono da Ermelo, una cittadina del Sud Africa, attraversarono il confine con lo Swaziland per prendere il Fokker che li avrebbe portati all’aeroporto delle Seychelles con gli AK47 nascosti nel doppio fondo dei loro borsoni.
25 novembre 1981
Tralasciamo tutto ciò che è stato già riportato da libri e articoli, con l’arrivo del Fokker dei mercenari, camuffati da rugbisti e sotto la copertura dell’associazione Ye Ancient Order of Frothblowers (l’Antico Ordine dei Bevitori di Birra), effettivamente esistente nel Regno Unito.
Frothblowers significa “colui che soffia via la schiuma” (come per la birra). Soprattutto è determinante la testimonianza di Mike Hoare nel suo libro The Seychelles Affair, alla seconda ristampa nel 2008.
Guardiamo la scena al presente con gli occhi del testimone Tullio Moneta…
Dopo il “guaio” capitato al borsone di Beck con la scoperta dell’AK47 e dopo che è stato dato l’allarme, Tullio ricorda che Geremiah Puren grida «act!», ovvero esorta ad agire.
Tullio monta in 20 secondi l’AK47 che aveva nel sottofondo del suo borsone e si precipita nei locali della dogana.
All’improvviso si apre la porta di un ufficio ed escono due doganieri armati con l’AK47. Tullio ne affronta uno e lo sbatte contro il muro, disarmandolo. L’altro spara una raffica, colpisce tra il petto e la spalla Johann Fritz, un giovane di 20 anni del Recce Commando. Poi si volatilizza.
Mentre Tullio chiama il medico della spedizione, dottor De Wet , Fritz viene soccorso immediatamente da due compagni del Recce.
Uno dei due è Paddy Henrick, che mi ha precisato in una lettera: «Ero con Tullio quando Johann morì. Sono arrivato quando era già a terra e cercai di confortarlo come meglio potevo. Era un mio grande amico. In quell’anno aveva corso la Comrades Marathon, una maratona in canoa nel fiume Duzi, e aveva conseguito pure due lauree.»
Il medico in forza al commando, dopo aver visitato Fritz, fa segno a Tullio e a Hoare che non c’è nulla da fare, poiché il colpo ha reciso l’aorta.
Fritz vivrà per altri 10 minuti. Era figlio di una ricca famiglia sudafricana proprietaria di miniere.
Anthony Mockler ed altri giornalisti hanno scritto che il giovane Fritz sarebbe stato ucciso da “fuoco amico”.
E’ falso. Tullio Moneta e Paddy Henrich erano presenti ed hanno visto come sono andati i fatti: il giovane Fritz non è stato colpito dal friendly fire, ma dalla raffica del doganiere.
Nessuno ha mai chiesto a Tullio e a Paddy di raccontare la verità.
I mercenari scovano in un ufficio vicino all’aeroporto cinque impiegati, tre uomini e due donne.
Li portano dentro l’aeroporto e Tullio li fa rinchiudere in una stanza per metterli al sicuro. Uno di questi si mette ad inveire contro i mercenari, mentre gli altri quattro cercano di zittirlo.
Tullio capisce che è il solito sbruffone e dice: «Piantatela! Siamo qui per fare un lavoro. Non rompete le scatole.»
Tullio requisisce insieme al capitano inglese Mike Webb uno degli autobus che doveva trasportarli all’albergo in cui sarebbero stati alloggiati e che stazionavano all’uscita dell’aeroporto.
Ordina di andare verso le baracche dei soldati tanzaniani che sono a metà strada di lato della pista di atterraggio dell’aeroporto, mentre quelle dell’esercito delle Seychelles sono al termine della pista.
Il pullman arriva alle baracche dei tanzaniani.
Le baracche consistono in diversi edifici tipo bungalow, ad eccezione di una casa che è di tre piani.
Intanto Tullio ed altri mercenari fanno di corsa i circa 300 metri che li separano dalle baracche dei tanzaniani e le circondano a semicerchio.
Giunto insieme ai suoi viene accolto da due o tre colpi sparati dalle baracche. I mercenari aprono un fuoco intensivo.
Tullio ordina di sparare al secondo piano della casa in modo che i colpi vadano pure sulle scale di collegamento tra il primo e il terzo piano.
I tanzaniani scappano. Dei nord coreani neppure l’ombra: si erano squagliati ai primi colpi provenienti dall’aeroporto.
Tullio e i suoi si dirigono poi verso le baracche dell’esercito delle Seychelles che sono in fondo alla pista di atterraggio. Da dietro le baracche escono quattro autoblindo sovietiche. Due di queste rimangono a difesa delle baracche e due si dirigono verso l’aeroporto.
Tullio ordina al capitano Webb di ritornare con il pullman all’aeroporto per organizzare la difesa.
Tullio stesso ritorna indietro poiché è impossibile fronteggiare le autoblindo senza un bazooka.
Un autoblindo rimane indietro, mentre l’altra attacca l’aeroporto sparando con la mitragliatrice da 12,7 mm. della torretta girevole.
Le pallottole con l’anima interna in tungsteno perforano i muri dell’aeroporto. Per i mercenari asserragliati nell’aeroporto si sta mettendo male.
Tullio accerchia con i suoi l’autoblindo e ordina a Peter Rowain di “accecare” l’autoblindo, spalmandone il visore con il fango di una fogna a cielo aperto. L’autoblindo “accecata”, una BTR sovietica, finisce con due ruote nella fogna e si inclina da un lato.
A questo punto la mitragliatrice da una parte spara verso l’alto e non può più colpire gli attaccanti. Quindi i mercenari si posizionano da quella parte sicura e ordinano agli uomini dell’autoblindo di arrendersi, altrimenti li avrebbero bruciati con le molotov che avevano preparato svuotando bottiglie di cognac del bar dell’aeroporto e riempiendole di benzina.
Mike Hoare chiede a Tullio di dire in francese all’equipaggio dell’autoblindo: «Arrendetevi, o vi bruciamo!»
Allora dalla cima della torretta appare il tenente (di nome Adnan) che comandava l’autoblindo con il mitra in mano e per questo motivo viene freddato da una decina di colpi esplosi contemporaneamente da Tullio e da tre commando. Il corpo del tenente cade dentro l’autoblindo.
Anthony Mockler scrive che il tenente venne ucciso dall’equipaggio, in quanto voleva impedire che i suoi soldati si arrendessero.
E’ falso anche questo.
A questo punto ai soldati dell’autoblindo non rimane che arrendersi ed escono dalla torretta uno dopo l’altro, con le mani alzate.
Vengono fatti spogliare completamente nudi e cacciati via.
Si tenta di recuperare l’autoblindo, ma il circuito elettrico della torretta è saltato e la mitragliatrice è quindi inservibile. L’autoblindo viene allora abbandonata.
Al suo interno i mercenari trovano alcuni razzi anticarro, ma senza il lanciarazzi sono inservibili. Intanto, i mercenari si sono asserragliati nell’aeroporto.
La torre di controllo era stata occupata fin dall’inizio e Charles “Chaz” Goatley, che era stato pilota militare e caposquadriglia, quindi uno del mestiere, inizia a controllare il traffico aereo, soprattutto nel caso arrivassero aerei nemici.
I mercenari, proprio per evitare l’atterraggio di aerei nemici, mettono alcuni camion e automezzi lungo la pista di atterraggio.
Resisi conto della situazione disperata, il gruppo di mercenari comincia a pensare di ripartire con il Fokker che li aveva portati alle Seychelles, ma i piloti erano fuggiti ed erano introvabili.
Sta intanto giungendo un Boeing 707 dell’Air India, proveniente da Harare, capitale dello Zimbabwe, e diretto a Bombay. Deve atterrare per forza, poiché non ha più carburante.
Infatti, il metodo usato dalla Air India per risparmiare soldi del carburante era di partire con i serbatoi piuttosto vuoti, in modo da fare il pieno alle Seychelles, dove il carburante era meno costoso.
“Chaz” Goatley invita il Boeing a non atterrare poiché la pista è interrotta. Inizia un dialogo attraverso la radio.
Il comandante del Boeing, Saxena, dice: «Devo atterrare, non ho più il carburante» «No, non puoi» risponde “Chaz” dalla torre di controllo.
«Fammi parlare con il capo della torre di controllo»
«Non è possibile. E’ assente. La pista è pure occlusa»
«Bene, io atterro lo stesso» conclude il comandante.
Non può farne a meno. Capisce però che c’è qualcosa di strano che sta accadendo. Egli è stato pilota della RAF durante l’ultima guerra ed è quindi abituato a decidere in situazioni estreme. Il comandante del Boeing, il cui vice è il capitano Misra, inizia l’atterraggio.
Nel farlo, il Boeing tocca con l’ala un camion che intralciava la pista sbalzandolo ad almeno 25 metri di distanza. L’ala non viene danneggiata seriamente.
Mentre inizia il rifornimento, il comandante scende dal Boeing veramente arrabbiato.
Immagina che stia accadendo realmente qualcosa di strano. Tullio invia il capitano mercenario Ricky Stannard incontro al comandante, a cui fa un inchino dicendo: «Benvenuto alle Seychelles».
Poi il comandante Saxena parla con Hoare e con Tullio, il quale inizia a spiegargli la situazione in atto. Proprio in quel momento inizia un cannoneggiamento con 2 o 3 pezzi da 75 mm. da una distanza di circa 400 metri dalla pista, per colpire il Boeing.
Se lo avessero colpito avrebbero fatto una strage di passeggeri. La tragedia sarebbe stata imputata soprattutto a Mike Hoare.
Hoare contatta telefonicamente la State House per parlare con il presidente René, o con il suo “uomo forte” Berlouis, per un cessate il fuoco.
Occorre salvare la vita dei passeggeri del Boeing dell’Air India. Inizia una trattativa. Poi, il comandante del Boeing parla direttamente con il presidente René: il Boeing, che ha 40 passeggeri, ma ne può trasportare almeno 120, può ripartire non appena effettuato il rifornimento.
Poco dopo i colpi di cannone cessano, evidentemente dietro ordine del presidente René.
Erano stati sparati una quindicina di colpi: fortunatamente i serventi ai cannoni erano poco addestrati, altrimenti sarebbe stata una strage.
Il golpe era durato dalle 18,00 alle 24,00.
Dove andare?
Messo in salvo il Boeing si presenta un problema: ormai l’attacco era fallito.
Ci sarebbe pure il pericolo di un intervento armato dei “marines” sovietici e sarebbero dolori e grane diplomatiche. Quindi dove fuggire con questo Boeing?
Utilizzarlo, o meglio dirottarlo diventa un atto di “pirateria aerea”.
Se si continua con il Boeing fino a Bombay si viene arrestati per “pirateria aerea”, processati e condannati a morte poiché in India questa sarebbe la condanna.
Lo dirottiamo nell’Oman – si chiedono i mercenari – dove Mike Webb era già stato come consigliere militare? Oppure, in Kenya, per via degli accordi segreti di occupazione delle Seychelles da parte del governo keniota?
Solo che quel governo non vorrebbe che i piani venissero alla luce del sole, attuati addirittura con mercenari sudafricani…
Tullio propone di farsi portare nel Botswana, che confina col Sudafrica, e da lì passare la frontiera del Sudafrica. Soluzione scartata, perché troppo macchinosa e piena di incognite. Alla fine si decide di atterrare a Durban, in Sudafrica.
Mike Hoare propone di distruggere le armi prima del decollo. Tullio si oppone con forza all’idea del suo colonnello, poiché non vuole finire massacrato insieme ai suoi uomini, qualora dovessero rimanere a terra per qualche motivo.
Tullio dice: «L’aereo è danneggiato e potrebbe non decollare. Se poi dovesse decollare, potremmo essere colpiti da quella mitragliera sovietica a quattro canne da 14,5 mm., in postazione tra le baracche dei soldati in fondo alla pista. In questo caso, il Boeing dovrebbe atterrare di nuovo e noi, disarmati, potremmo essere catturati o ammazzati.»
Giorgio Rapanelli, Ippolito Edmondo Ferrario, “Mercenario. Dal Congo alle Seychelles. La vera storia di Chifambausiku Tullio Moneta”, Edizioni Lo Scarabeo, Milano
da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 21, 2020 | Accadde Domani, News, Soldati di Ventura
ACCADDE DOMANI. 25 NOVEMBRE 1981. IL TENTATO GOLPE ALLE ISOLE SEYCHELLES NELLA TESTIMONIANZA DI TULLIO MONETA (PRIMA PARTE)
Evoluzione del golpe
Terminata la lavorazione del film I quattro dell’Oca Selvaggia, iniziò l’organizzazione del golpe. Tullio e William Dunlop Paul, il proprietario di una catena di palestre ed esperto di karate ed arti marziali, di cui si è detto sopra, che però mai aveva combattuto, si misero in moto per reclutare i mercenari che conoscevano fin dal Congo. Nel frattempo i due furono contattati dal comandante George Schroeder per organizzare insieme a lui un piano, che ai due sembrò surreale e che, quindi, non accettarono. Ma la vera ragione per cui non accettarono era che non avrebbero abbandonato Mike Hoare, che intanto teneva contatti con diplomazie e servizi segreti occidentali, e con il governo delle Seychelles in esilio. Hoare fece vedere una volta una lettera inviatagli dagli ex-ministri, che lo invitavano a compiere il golpe. Intanto l’operazione andava avanti con il reclutamento di due capitani, tre tenenti e vari graduati che erano nel Quinto Commando in Congo. Furono reclutati validi combattenti come Barney Carey, Geremiah Puren, pilota di piccoli aerei nella campagna del Congo, Peter Rohein, Kurt Priefert, Desmond Jurgen Botes, detto “Des Botes”, Charley William Duchi, detto “Charley Dukes”, Roger England, ed altri.
Tullio reclutò anche 20 uomini del Recce Commando che come abbiamo detto era un corpo speciale formato da patrioti volontari, molti dei quali provenivano da famiglie benestanti, da dirigenti amministrativi e dalla magistratura, e perfino da ex-ministri sudafricani, che venivano addestrati fino a perdere la propria personalità.
Ad esempio, dopo aver fatto 40 chilometri con zaino ed armamento, senza mangiare e bere acqua, in un ambiente piuttosto arido, tipo quello che appare nel film I quattro dell’Oca Selvaggia, girato proprio in quei luoghi, gli aspiranti commando del Recce giungevano ad un baobab, sotto cui stava seduto un istruttore che beveva una Coca Cola ghiacciata. Per gli affamati e assetati c’era solo del pane imbevuto di alcol denaturato e dell’acqua mescolata ad urina. L’addestratore, indicando un frigorifero portatile pieno di bevande ghiacciate, chiedeva: «Chi vuol bere una Coca Cola?». Chi si avvicinava per bere la bibita fresca veniva scartato in quanto non era adatto a fare parte della élite del Recce Commando. Questo era ciò che il colonnello del Recce Van der Spy raccontò a Tullio.
Nel Recce esistevano molte specializzazioni. Ad esempio c’era un corso avanzato di paracadutismo chiamato HALO, High Altitude Low Open, in cui ci si gettava da 30.000 piedi, circa 9.000 metri, con il respiratore. E ancora si insegnavano tecniche di sopravvivenza e addestramento a seguire le tracce sul terreno, apprese dai boscimani, infiltrazione in territorio nemico con marce, paracadutismo e dal mare, fusione col nemico, addestramento con le armi in uso in tutti i Paesi del mondo, (quindi armi pesanti come contraerea e artiglieria), cecchinaggio. C’erano poi corsi sugli esplosivi e sulle mine antiuomo e su come disinnescarle, alpinismo, addestramento su terreni diversi e in diversi climi. E ciò durava per mesi… Il Recce Commando era un’unità di forza permanente. All’epoca il Sudafrica era circondato da nemici e l’ANC (African National Congress) di quegli anni era ben diverso da ciò che è oggi. All’epoca esisteva una branca armata dell’ANC, l’Umkonto we siswe, la “lancia della nazione”, di cui Nelson Mandela era il presidente. Erano marxisti e compivano sabotaggi e azioni di terrorismo con vittime in bar, in ristoranti, nelle chiese. Esisteva l’infiltrazione da paesi confinanti come Mozambico, Botswana e Swaziland di forze comuniste (cubani, sovietici, tedeschi orientali, cinesi) con il compito di addestrare i loro nemici. I patrioti del Recce hanno combattuto per il loro Paese e per la libertà religiosa. Paddy, infatti, era ed è un cattolico praticante.
Tullio non avrebbe mai fatto parte di questo corpo speciale, che non “pensava”, ma che “ubbidiva” ciecamente agli ordini. I mercenari dovevano invece pensare velocemente con la propria mente e decidere velocemente il da farsi.
Il sospetto
Avvennero però cose che misero in sospetto Tullio. Intanto egli non capiva perché al golpedovevano partecipare membri dei servizi segreti come Martin Dolinchek che era entrato nel 1978 portandosi dietro pure Peter Duffy, il fotoreporter che seguì la campagna dei mercenari in Congo standosene al sicuro nel campo base. Tullio considerava Dolinchek e Duffy dei “venditori di fumo”.
Facevano parte pure agenti dei servizi come Kenneth John Kelly, detto “Blue” Kelly, unaustraliano, e Jan Olav Sydow, uno svedese che conosceva l’inglese e il russo.
Tipi “oscuri e inaffidabili” come quelli, sospettati di essere killer professionisti: che ci stavano a fare in mezzo a militari organizzati, si chiedeva Tullio?
Come mai, fallito il coup d’état, il colpo di Stato, tutti i mercenari catturati furono condannati a morte dal Regime di René, salvo Dolinchek? Come mai quest’ultimo, appena iniziato il combattimento, scomparve per mettersi in salvo in un hotel a bere birra?
Fonti confidenziali del Recce assicurano che Kevin Beck odiava Dolinchek, Duffy e Kelly, come del resto quasi tutti i Recce Commando.
Tullio aveva cercato, prima di partire per le Seychelles, di conoscere il pensiero di due dei migliori combattenti, Pieter Doorewaard e Paddy Henrick, esperti group leaders del Recce, sulle cose che lo insospettivano, soprattutto per gli accordi iniziali che venivano disattesi, facendo ritirare dal complotto ottimi ufficiali. Essi rispondevano che in questo genere di azioni poteva capitare di dover decidere di tagliare alcune cose, impossibili da realizzare. Comunque, l’azione doveva andare in porto, pur mancando le armi pesanti trasportate con uno yacht.
Tullio si chiedeva pure se c’era forse l’ordine di assassinare l’usurpatore René ed alcuni ministri chiave. Tullio fu pubblicamente categorico, perfino con Mike Hoare presente: «Noi siamo dei soldati combattenti, non degli assassini. Il lavoro sporco non lo facciamo… Né permetterò che lo facciano altri. Noi saremo nelle Seychelles come soldati dell’Occidente solo per abbattere il regime filocomunista di René e ridare il potere al presidente legittimo Jimmy Mancham. Stop. Se poi, dopo esserci ritirati dalle Seychelles e dato il potere in mano agli uomini della Resistenza, vorranno attuare le vendette sarà affare loro. E’ chiaro?»
Lo allarmava non ultimo il fatto che era stato annullato lo yacht che avrebbe dovuto trasportare alle Seychelles le armi pesanti, mitragliatrici e bazooka, già nascoste in precedenza nella villa di Hoare. Tullio sapeva che l’esercito delle Seychelles aveva autoblindo e mezzi pesanti, che non si sarebbero potuti neutralizzare con i mitragliatori leggeri AK47, in dotazione. Non c’era neanche più il C 130 per il trasporto delle armi e dei mercenari. In un incontro di Tullio e di Dunlop Paul con il maggiore Willie Ward del RecceCommando notarono che quest’ultimo faceva delle difficoltà e alla fine si ritirò… Si era ritirato anche un certo Bryan Walls del Recce Commando che nella vita civile faceva il gioielliere, ma era una professione di copertura. Pure quattro ufficiali del Recce si erano ritirati… La cosa cominciava a puzzare all’olfatto sospettoso di Tullio.
Però Mike Hoare giustificava tutto ciò che accadeva come cose che erano state decise dall’alto. Pure alcuni ufficiali dei mercenari, sentendo puzza di bruciato, si ritirarono. Tullio rimase nel commando per la fedeltà e per l’amicizia verso Hoare che aveva maturato in anni di collaborazione in Congo e in altre azioni. Non voleva che circolasse la voce che il maggiore Tullio Moneta aveva abbandonato il suo colonnello per timore di un esito negativo dell’azione.
C’era poi pure una parte di egoismo in questa decisione. Tullio si chiedeva: e se, invece, le cose fossero andate bene, come pronosticava Hoare e senza alcun spargimento di sangue, egli avrebbe perduto un’occasione d’oro per aumentare il proprio prestigio in quel mondo dove si preferisce morire piuttosto che fallire?
Comunque, per sminuire le defezioni, Hoare aveva messo Tullio sotto i riflettori del palcoscenico, dicendo pubblicamente in una riunione collettiva: «Finché ho gente come Tullio sto a posto. Voi potete andare pure via tutti.»
Giorgio Rapanelli, Ippolito Edmondo Ferrario, “Mercenario. Dal Congo alle Seychelles. La vera storia di Chifambausiku Tullio Moneta”, Edizioni Lo Scarabeo, Milano
da Ippolito Edmondo Ferrario | Feb 7, 2018 | News
Mercenario e me ne vanto
Ippolito Edmondo Ferrario
Secolo d’Italia
13 luglio 2006
Nulla è più bello dell’uomo quando avanza. Il soldato che esce dalle file e si dichiara volontario. Il torero che si strappa fuori dal burladero, scaccia i suoi peones e si spiega la cappa. E l’immagine ingenua del cow boy che entra nel saloon, fende l’adunanza pietrificata e si dirige verso il bar. Tutto scricchiola nel cuore degli altri uomini quando uno di loro si fa avanti di due passi, si stacca dalla fila e così foggia intorno a sé una barriera invarcabile di rispetto. Le madri e le fidanzate supplicano e non capiscono che possono avere per rivale la morte. “Non farti avanti! Torna indietro!”. Troppo tardi. Il figlio o l’amante ha udito l’incredibile appello di un altro amore e volge verso le donne un viso d’ombra, uno sguardo vuoto. “Non ci conosce più” urla la madre. È vero. Lui non è più lo stesso, da quando si è fatto avanti. Non ha più un passato. Donne, vi è straniero perché egli ha scelto di nascere una seconda volta ed è uscito, in quell’istante, da se stesso e non dalle vostre viscere. L’eroismo: selvaggia creazione di sé a opera di se stesso, dell’uomo a opera dell’uomo. Così scriveva lo scrittore francese Jean Cau nel suo “Il cavaliere la morte il diavolo” (Ciarrapico Editore, 1985) cogliendo lo spirito più autentico del guerriero, di colui che al di là delle bandiere, abbandona le certezze del vivere quotidiano per andare incontro ad un destino incerto, che presagisce come foriero di morte, ma al quale non può resistere. Questo atteggiamento inconscio, dominato dall’oscuro fascino esercitato dalla signora con la falce, è lo stesso ispirò il romanzo di Daniel Carney “I Quattro dell’oca selvaggia”, pubblicato nel 1977. Cambiano gli scenari, alla spada e all’usbergo del cavaliere di Cau, si preferiscono bombe a mano e mitra, e si va a “cercar la bella morte”, possibilmente lontano da casa. Questi combattenti di ogni epoca e di ogni campo di battaglia rifuggono la vita borghese, l’illusione di poter sfuggire al destino mettendosi al sicuro; il solo modo che hanno per vivere è quello di non fermarsi mai, di non mettere radici. Gli stessi ambienti della destra italiana subiscono il fascino della figura del mercenario; se la sinistra guardava al Che, nel 1968 Pino Caruso cantava “Il mercenario di Lucera”, l’inno antiborghese per eccellenza. È la stessa filosofia dei pistoleri de “Il mucchio selvaggio” del regista Peckinpah che di fronte alla prospettiva di andare incontro alla morte, rispondono: “Perché no?”. Carney con “I quattro dell’oca selvaggia” mette in scena la figura dei mercenari, che ben conosce anche attraverso le sue vicende personali. Lo scrittore infatti nasce in Libano nel 1944 e dopo aver condotto i propri studi in Inghilterra si stabilisce nella tormentata ex Rodhesia, oggi Zimbawe. Il quadro psicologico che l’autore adotta per i protagonisti della sua storia è dominato da un profondo disadattamento nei confronti della vita civile che tutti hanno intrapreso dopo il mestiere delle armi. Ci troviamo di fronte all’atavica difficoltà dell’inserimento dei reduci nella cosiddetta società civile, sentimento sul quale, pochi anni dopo, David Morrell baserà la figura del reduce per più popolare del mondo, John J. Rambo interpretato per la pellicola cinematografica da Silvestre Stallone. Carney però, influenzato da decenni di guerre sul suolo africano, ipotizza una storia che non si discosta di molto dalla realtà: un uomo d’affari inglese, Sir Edward Matherson, che rappresenta gli interessi di un gruppo bancario, chiede al colonnello Allen Faulkner (con il volto di Richard Burton) di mettere insieme una forza mercenaria per liberare Limbani, deposto capo politico congolese e avversario dell’attuale generale golpista Ndofa che con la sua politica di statalizzazione delle miniere di rame sta nuocendo agli investimenti anglosassoni. Inizia così la prima parte della storia, segnata dall’incontro con i vari personaggi che faranno parte della missione. L’universo dei mercenari è variopinto: si va dallo scapestrato playboy, Shawn Fynn tenente pilota e assiduo frequentatore di night (interpretato da un giovane Roger Moore), al capitano Rafer Janders, che sopravvive facendo il corriere per un’organizzazione malavitosa alla quale si ribella, uccidendone atrocemente il rampollo, quando scopre di trafficare in droga. Quest’ultimo poi si porta appresso il peso di un matrimonio fallito e la responsabilità di un figlio ancora piccolo che mantiene in una scuola svizzera. Il rapporto tra padre e figlio, le difficoltà a comunicare l’affetto, mutano con l’imminente partenza del padre per la missione e la sua ultima visita al ragazzo. I mercenari di Carney sfuggono ai dolori della vita andando in guerra; i soldi diventano un pretesto. Ci si commuove nel leggere del mal d’Africa provato dal mercenario Peter Coetzee, con un passato da esploratore nella valle dello Zambesi che lo hanno portato sull’orlo della follia: “Sono vissuto in una grotta, con poche interruzioni per diciotto mesi. Non uscivo mai quando faceva chiaro, strisciavo solo al buio. E uccidevo, uccidevo. Quasi sempre da molto vicino: così li vedevo, sentivo l’odore della loro paura” racconta al suo commilitone davanti a una birra in una bettola londinese. In questi uomini però, dietro la spietatezza mostrata battaglia, si annida una profonda umanità: è sempre Coetzee a rifuggire la sua condizione di predatore di uomini rimpiangendo il ruolo iniziale di guardiacaccia al quale era destinato “…mi ero sempre visto come uno che protegge le cose, non uno che le distrugge”. Ognuno di loro ha in tasca un sogno che lo aiuta a rimanere a galla: Coetzee spera solo di rivedere la sua Africa, Janders con i soldi dell’ingaggio vorrebbe comprare una fattoria e con essa l’illusione di una vita tranquilla insieme al figlio. Lo stesso Tenente Finn, prossimo alla missione, durante una delle libere uscite, s’innamora di una prostituta che rischia di compromettere la sua determinazione. Il distacco dalla donna è sofferto, ma in questo caso il nuovo amore sarà la motivazione necessaria per riportare a casa la pelle. Nella realizzazione cinematografica il regista Andrew W. McLaglen si affidò alla supervisione di uno che la guerra la conosceva bene e ce l’aveva nel sangue: Thomas Michael Bernard Hoare, celebre mercenario irlandese, al quale Carney si ispirò anche per il titolo del libro: infatti il Gruppo Cinque, composto dai mercenari agli ordini di Hoare, aveva per emblema un’oca selvaggia, già adottata dai mercenari irlandesi del diciottesimo secolo. Se Carney per scrivere la storia non aveva dovuto ricorrere alla fantasia, allo stesso modo le vicende cinematografiche si intrecciarono con la realtà, con risvolti incredibili. Il set del film cementò l’amicizia tra “Mad Mike” Hoare e l’attore italiano Tullia Moneta; i due, nel 1981, tre anni dopo le riprese, s’imbarcarono in un tentativo andato poi a vuoto di colpo di stato alle isole Seychelles. Lo stesso Hoare, intervistato a proposito, ironicamente aveva detto: “Avrei dovuto portare con me Richard Burton e Roger Moore, e avremmo avuto un lieto fine”. Naturalmente non si può non guardare ad un’altra figura leggendaria che senz’altro influenzò Carney con le sue vicende rocambolesche: il mercenario Bob Denard, classe 1929, che dopo aver combattuto tra le fila della Legione Straniera francese in Indocina, costruì la sua fama di eroe portando in salvo la popolazione bianca presente in Congo Belga nel 1961 durante la secessione. La sua epopea mercenaria toccò l’apice con la conquista delle isole Comore nel 1976 sui cui mantenne il potere fino al 1989. Carney per i suoi mercenari prevede un’ulteriore prova, ovvero l’impiego sul campo di battaglia attraverso un lancio notturno col paracadute. Il portellone dell’aereo che si apre sul vuoto, l’affidare la propria vita a un pezzo di stoffa tenuto insieme da cordicelle, è sinonimo di una scelta che non ammette ripensamenti. È lo storico Dominique Venner, combattente d’Algeria, a riassumere in poche parole la metamorfosi spirituale che si conquista attraverso il lancio: “Il parà è un iniziato. Ha subito delle prove che fanno di lui un altro uomo. Ha scoperto il segreto dell’ordine. È il depositario del Graal”. I mercenari di Carney cadono uno dopo l’altro, uniti dal medesimo destino, traditi da Mattherson che in nome di repentini mutamenti politici, decide di annullare la missione e di lasciarli al loro destino. Soli e braccati dai sanguinari guerrieri Simba agli ordini del generale Ndofa scelgono la morte in battaglia. Si battono con sprezzo fino all’ultima pallottola, contro le forze nemiche soverchianti per numero. I pochi superstiti che riescono a mettersi in salvo hanno negli occhi la morte dei camerati; tra loro, nella carlinga del Dakota pilotato da un capitano Fynn, morente c’è Limbani, il leader politico, obbiettivo della missione; gravemente malato, è sopravvissuto alla morte grazie al sacrificio del mercenario Mctaggart che dopo l’iniziale diffidenza razzista abbraccia la causa di Limbani giurandogli fedeltà. Sarà proprio quest’ultimo a veder morire il mercenario “razzista” e a piangerne la morte con “grandi lacrime silenziose”. La versione cinematografica del romanzo ha la sua conclusione nel ritorno a Londra di Faulkner deciso a vendicare i suoi uomini e lo farà uccidendo sir Matherson. Carney invece, fedele alla filosofia mercenaria rifuggirà il lieto fine lasciando morire Faulkner sul campo di battaglia.