Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

A distanza di vent’anni l’ex mercenario Tullio Moneta racconta dell’incarico ricevuto di rapire l’ex dittatore etiope Mengistu. Testimonianza raccolta da Giorgio Rapanelli.

Nel 1990 Tullio Moneta fu incaricato da una “intelligence” occidentale di rapire l’ex-dittatore rosso dell’Etiopia Mengistu, che si era macchiato di crimini contro l’umanità.

Doveva essere un’”operazione segreta”.

Qualora le cose dovessero andare storte, i paesi non vorrebbero essere coinvolti per motivi politici, negando così ogni coinvolgimento nelle operazioni.
Fuggito dall’Etiopia, Mengistu era stato accolto nello Zimbabwe dal dittatore Mugabe.

Mengistu viveva in uno chalet di proprietà di una cittadina somala sul lago Kariba.

Tullio conosceva bene quella zona turistica, che aveva frequentato con il suo colonnello Mike Hoare, comandante del 5 Commando in Congo nell’azione militare contro i ribelli Simba.

Erano insieme in quella zona per organizzare qualcosa che poi non andò in porto.
Lo chalet si trovava a circa 200 metri dalla riva nord del lago.

Si trattava di rapire Mengistu, caricarlo su di un aereo e riportarlo in Etiopia, dove sarebbe stato processato e condannato a morte… Condanna che sarebbe stata poi tramutata in ergastolo.
Insieme a due mercenari, Tullio Moneta fece un sopralluogo della zona di operazioni.

Scattò delle foto dello chalet, dell’ambiente intorno, dell’intera zona e delle strade, delle due guardie del corpo che guardavano Mengistu e dello stesso Mengistu che passeggiava in abiti civili.

Tullio e i due mercenari si muovevano nella zona camuffati da pescatori, che come altri pescatori si cimentavano nella pesca del “tiger fish”, il “pesce tigre” del lago Kariba, molto difficile da catturare.

La cattura di Mengistu non avrebbe invece presentato problemi per i cinque mercenari che insieme a Moneta avrebbero sopraffatto, addormentato e legato le due guardie del corpo grassocce, probabilmente soldati locali dello Zimbabwe.

Non sarebbe stato necessario eliminare le due guardie del corpo, sparando con le penne stilografiche cal. 22 R.L. di cui erano dotati: un armamento non compromettente, ma micidiale…
Avrebbero facilmente catturato Mengistu, messo nel portabagagli di un’auto e trasportato a cinque chilometri da lì, dove li aspettava su di una pista della savana un Chessna che  sarebbe volato fino ad Addis Abeba con a bordo l’ex dittatore.
Intanto Tullio Moneta e i cinque mercenari sarebbero diventati turisti per alcuni giorni in Botswana, al “Mowame Lodge” sul fiume Chobe, un affluente dello Zambesi, prima di tornare in Sudafrica attraverso la “Caprivi Strip”, punto di contatto con Zimbabwe, Namibia e Botswana.

Tuttavia le cose non si erano rivelate così facili…Innanzitutto non era stato possibile contattare un pilota della squadra di Jack Malloch, che avrebbe dovuto portare Mengistu in Etiopia.

Negli anni Ottanta Malloch, che era stato il pilota coinvolto nel fallito colpo di Stato delle Seychelles, ed era scomparso misteriosamente mentre volava con in suo Spitfire restaurato.

Pure il dottore Hans Germani, medico, scrittore e conoscitore di diverse lingue, amico di Tullio Moneta fin dai tempi del Congo, era stato, secondo dicerie, assassinato dalla polizia dello Zimbabwe.

In più, i sondaggi prevedevano una pesante sconfitta del dittatore Mugabe da parte del democratico Morgan Tsvangirai alle prossime elezioni presidenziali.

L’operazione diventava sempre più difficile da attuare.

Quindi, poco prima che Tullio Moneta potesse realizzare il rapimento di Mengistu, arrivò un messaggio radio che dava l’ordine di “ABORT ACTION”. Ossia, l’operazione rapimento di Mengistu era annullata.

La decisione era stata presa in previsione della vittoria di Tsvangirai, che, una volta diventato presidente, avrebbe fatto deportare Mengistu in Etiopia.
Tullio Moneta e i cinque mercenari trascorsero di conseguenza alcuni giorni al “Mowane Lodge” a spese dei mandanti del rapimento di Mengistu che non riconobbero ai cinque mercenari il compenso d’ingaggio pattuito, in quanto il rapimento non era avvenuto.
Come previsto, Tsvangirai vinse le elezioni, ma Mugabwe non accettò la sconfitta e rimase al potere.

Menghistu nel frattempo continuò a rimanere nello Zimbabwe come suo ospite.

 

Italo Zambon. Il paracadutista della Folgore morto durante l’assedio di Bukavu nel 1967

Italo Zambon. Il paracadutista della Folgore morto durante l’assedio di Bukavu nel 1967

Italo Zambon è stato uno dei volontari italiani più conosciuti e apprezzati. Veneziano, già parà della Folgore, operò prima nella zona di Paulis e successivamente, alla fine del marzo 1965, insieme al volontario Jean-Claude Laponterique (proveniente dal 11e Régiment Parachutiste de Choc di stanza a Calvi) fu aggregato al 1er CHOC guidato da Bob Denard; qui venne inserito nel gruppo comandato da Roger Bruni e denominato Charly One. L’altro solo italiano presente era Carlo Chiesa, proveniente dai ranghi della Legione Straniera. Zambon si guadagnò il soprannome di “orecchiofino” per la sua capacità in pattuglia di percepire i movimenti dei ribelli ed evitare di cadere nelle loro imboscate. Prima di giungere in Congo aveva viaggiato moltissimo, spesso con mezzi di fortuna, raggiungendo il Nord Africa e attraversando il deserto con le carovane. Zambon troverà la morte durante le ultime fasi dell’assedio della città di Bukavu il 29 ottobre 1967, durante uno degli attacchi più violenti condotti dalle truppe dell’ANC. Nel suo libro Il battaglione Léopard Jean Schramme ricorda le ultime concitate fasi dell’assedio della città: «Baka non avrebbe potuto essere raggiunta. Al calare della notte la 4a compagnia sarebbe stata obbligata a sganciarsi verso la posizione Venus. Anche il mio commando fu obbligato a indietreggiare e recuperammo le mitragliatrici e il cannone delle jeeps. Al mio fianco, Italo Zambon fu letteralmente tagliato in due da una raffica di mitragliatrice pesante. Era il migliore dei nostri volontari italiani». E ancora il volontario francese Jean-Claude Laponterique lo ricorda con affetto: «In combattimento Italo era una persona di cui ti potevi fidare. Nei momenti liberi era estremamente simpatico e faceva ridere per quel suo strano accento con cui parlava il francese. Era sempre pronto ad aiutare le persone che abbiamo salvato dai ribelli. Quando mi sono congedato e ci siamo ritrovati insieme a Parigi mi ha chiesto se fossi disposto a ritornare in Congo. Io gli dissi di no, per me l’avventura era terminata. Ormai i ribelli erano stati debellati ad eccezione di poche zone residue. Lui partì nuovamente. Tempo dopo venni a sapere della sua fine. Sono certo che è morto in quella terra che amava più di tutto». 

(Foto J.C.L.)