ACCADDE DOMANI. 12 DICEMBRE 1969. GIANCARLO ROGNONI E LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA. UNA TESTIMONIANZA INEDITA (Seconda parte)

ACCADDE DOMANI. 12 DICEMBRE 1969. GIANCARLO ROGNONI E LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA. UNA TESTIMONIANZA INEDITA (Seconda parte)

ACCADDE DOMANI. 12 DICEMBRE 1969. GIANCARLO ROGNONI E LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA. UNA TESTIMONIANZA INEDITA (Seconda parte)

Fu grazie a Foscari che Siciliano venne introdotto all’ambiente milanese.

Ricordo un ultimo dell’anno trascorso a casa di un camerata milanese, Franco Mojana a cui partecipai insieme a Siciliano e altri. Verso le cinque del mattino ricevetti a casa una telefonata da una comune amica, Ada.

Ricordo che la ragazza mi chiese di poter fare da testimone al matrimonio tra le e Martino che si erano conosciuti quella sera stessa…Al momento non avevo compreso, pensando al mio ruolo di testimone per un incidente accaduto magari nella notte, rientrando dalla festa, e non per le loro nozze.

Sono tutti episodi che ben poco hanno a che vedere con riunioni e organizzazioni di attentati e stragi… Successivamente, vicissitudini personali, portarono Siciliano a tentare anche il suicidio nei servizi di un bar vicino alla sede del Msi a Milano.

A tutta una serie di illazioni mossemi, risposi portando diverse prove concrete.Dimostrai la mia presenza sul posto di lavoro, in banca, il 12 dicembre grazie ad una dichiarazione della Banca Commerciale Italiana, l’istituto per cui lavoravo in una delle filiali situata in viale Campania.

Tale documento fu fondamentale perché impedì all’accusa di conferirmi il ruolo di colui che aveva addirittura posto l’ordigno all’interno dei locali in piazza Fontana; rimanevano però le accuse di aver fornito supporto logistico.

Su come poi si sarebbe svolto il mio 12 dicembre entrerò nel merito successivamente riportando un episodio in particolare.

Approntai una difesa in più  punti per dimostrare la mia estraneità ai fatti, ma gli sforzi furono inutili.

Si volle sostenere un sillogismo per il quale, essendo in contatto con i supposti autori della strage, io stesso dovevo avervi preso parte secondo precise modalità logistiche.

Il 28 giugno 2001 presenzia in aula rilasciai ai giudici questa mia dichiarazione: «(…)Quest’ultimo aspetto voglio sottolinearlo perché ha una certa attinenza con questo processo che vede la tesi accusatoria reggersi in larga parte sulle vociferazioni che sarebbero corse in ambito carcerario.

È una banale ovvietà, ma voglio ribadirlo.

Il carcere è un ambiente degradante e corruttore.

Considerate che io, cinquantaseienne, le sole volte che vidi droghe di tutti i tipi fu proprio quando ero detenuto nei cosiddetti carceri speciali. In carcere è facile smarrirsi. Il dottor Maggi mi fu vicino venendomi a trovare, scrivendomi, inviandomi libri, facendomi sentire insomma parte di una comunità viva.

Per chi non dispone di simili ancore e magari non dispone di una salda struttura spirituale è facile piegarsi e spesso sprofondare nella degradazione e nell’abiezione.

Altrettando facile subire sollecitazioni e lusinghe oppure reagire agli stimoli come una sorta di riflesso pavloviano. Ed è quanto mi pare sia avvenuto per alcuni.

Ad esempio Bonazzi. Individuo un pezzo di una lettera che da poco ho ritrovato che egli mi scrisse dal carcere di Nuoro l’8/10/80, proprio nel 1980, e mi dice: “Da parte mia ho preparato un pezzo sulla strage che apparirà su un giornaletto di camerati a firma Quex”.

“È chiaro che la strage è di potere” lo scrive maiuscolo e sottolineato.

“Su questo non ci possono esserci dubbi”.

Ed ora indica come uno fra i responsabili me, che con il potere ho certo ben poco a che vedere.

Spesso, durante le udienze, è stata ventilata l’esistenza di una sorta di incitamento alla violenza da parte della Fenice. Orbene questo periodico era regolarmente registrato, tutti i numeri depositati.

Eppure nessun articolo è stato presentato a sostegno di questa tesi. Segnalo anzi che il motto campeggiante tutte le prime pagine dei vari numeri era quello di Don Bosco, “Nello sport, come nella vita, audaci, forti, leali e generosi” a cui avevamo sostituito “sport” con “impegno politico” e rappresentava, questo sì, il nostro pensiero.

Debbo dire, e credetemi che è assolutamente la verità, arrivati alla conclusione di questo processo, non ho ancora ben capito che cosa io avrei esattamente fatto, quale sarebbe stato il mio ruolo in questo progetto criminale.

Si è molto parlato dei tempi e dei luoghi in cui io ho conosciuto i miei coimputati e il Siciliano.

Mi pare che una parte civile per sostenere una tesi accusatoria mi abbia fatto presenziare negli stessi giorni a eventi differenti con differenti persone siti in luoghi a centinaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro. Io non ho conosciuto Siciliano nell’occasione indicata dallo stesso e ho conosciuto i miei imputati solo in data susseguente a quella della strage. Essenziale però a mio giudizio non è nemmeno questo, bensì il fatto che io non ho avuto, né nella genesi né nella realizzazione di questo attentato, alcun ruolo.

Mi pare quasi che si stia presentando un paradosso assurdo. Da un punto di vista giudiziario, ovviamente non morale, sarebbe quasi preferibile che io avessi assunto un qualche ruolo, magari marginale, per poter, confessando, sfuggire, tramite prescrizione, al giudizio. In realtà però è che non posso e neppur volendo, confessare alcunché. Dovrei mentire benchè non veda che ruolo credibile potrei creare anche in considerazione del fatto che le indagini hanno permesso di appurare che il giorno della strage io ero al mio posto di lavoro.

È infatti presumibile che, in un piano così articolato e complesso, nessuno spazio possa essere affidato a complici non necessari e, nel mio caso, fonte di possibile identificazione.

Fra l’altro credo che l’intossicazione a cui fu sottoposto lo schieramento politico a cui appartengo sia frutto di tecniche di disinformazione e depistaggio attuate a posteriori.

Se la regia vi fu, questa costruzione di indizi attuata dopo i fatti, si rivela molto labile per le difficoltà di distinguere il vero dal falso, sia per il passare del tempo, che offusca i ricordi, sia per la disinformazione che fu attuata ai danni di un’area in anni di forti tensioni politiche e sociali in cui a volte varie persone si sono trovati ad essere involontari attori o comparse.

Il Pubblico Ministero, con un’immagine suggestiva, suggerisce che non credere all’impianto accusatorio equivarrebbe a considerare colpevoli di un complotto inquirenti e magistrati che hanno istruito questo procedimento. 

Questo non è vero. Io ho molto apprezzato le indagini di polizia giudiaziale eseguite su disposizione della pubblica accusa tendenti a verificare le mie dichiarazioni. D’altronde non poteva essere differentemente, dato che proprio i risultati di quelle indagini costituiscono larga parte della mia difesa.

Pensavo anzi che il Pm desse maggior credito alle indagini da lui disposte.

Quello che ho molto apprezzato, durante il drammatico interrogatorio cui fu sottoposto Azzi in carcere, è che lo stesso, riaffermando l’astio nei miei confronti, ribadiva di non aver mai fatto dichiarazioni sui miei presunti coinvolgimenti nella strage di piazza Fontana. Ho apprezzato, dicevo, il comportamento della pubblica accusa che rifiutava la scorciatoia proposta dell’avvocato dell’Azzi per uscire dall’empasse e cioè il mio arresto.

Credo che il Pubblico Ministero sia convinto della tesi accusatoria da lui proposta, e non abbia chiesto la mia condanna solo per appagare la legittima soddisfazione di aver chiuso il caso.

Questo però ai miei occhi non fa di lui motore di un complotto bensì semplicemente un uomo che sbaglia, perché sbaglia. Su alcuni organi di stampa questo processo è stato presentato come l’ultima occasione.

Se debbo essere sincero questo è per me motivo di preoccupazione.

Il timore cioè che si colga questa occasione per chiudere in qualche modo il caso trovando dei colpevoli pur che sia. Nei sopravvissuti si sviluppa una forte ritrosia a rivisitare quegli anni, vuoi per un desiderio di cancellazione, vuoi perché tentati inconsciamente di attribuire a sé stessi il ruolo dei buoni, vuoi perché non vogliono coinvolgere persone con cui in un lontano passato hanno condiviso battaglie politiche che spesso portavano a scontri radicali e ciò spiega le eventuali discrepanze o reticenze.

Come ho già detto non posso che augurarmi, anche sotto l’aspetto egoistico di un tornaconto giudiziario, che i colpevoli siano trovati e che io sia giudicato per le azioni da me compiute e non per la fede politica professata, che voi possiate, seppur a distanza di tanti anni, offrire giustizia e che questa sia figlia della verità.

Per concludere questa mia dichiarazione voglio pubblicamente, con pacatezza, ma anche con forte determinazione, affermare che per questo orribile reato sono completamente innocente»,

Il primo grado si concluse per me con la condanna all’ergastolo. 

Il giorno che appresi della sentenza vissi un profondo senso smarrimento.

Provai la tentazione di arrendermi, di non riconoscere la giustizia che mi stava giudicando e addirittura di non fare ricorso.

Non mi aspettavo di essere condannato all’ergastolo di fronte ad accuse totalmente inconsistenti. 

La prospettiva di rimettere in gioco completamente la mia vita con un mio ritorno in carcere era cosa concreta.

Se una parte di me avrebbe voluto arrendersi, l’altra reagì.Proseguii nel dimostrare la mia innocenza.

Non mollai grazie alla mia famiglia, all’insistenza di Franca, mia moglie e del mio avvocato.

Così, con rinnovato vigore, affrontammo il secondo grado del processo, sforzandoci di smontare, dopo averle analizzate, tutte le varie tesi accusatorie. Fu un lavoro enorme, intenso che richiese uno sforzo notevole.

Trascorsi settimane facendo ricerche, acquisendo articoli e documenti nelle biblioteche, al fine di documentare meglio le date e l’inquadramento cronologico di molti fatti attinenti il processo.

Tusa mi aiutò in questo compito, mentre a difendermi ebbi anche l’avvocato Enzo Fragalà che si concentrò sugli aspetti più politici della vicenda, ma non solo.

I tempi della giustizia furono lunghi, ma alla fine fummo in grado di dimostrare la mia totale estraneità ai fatti. Appresi della mia piena assoluzione dall’estero.

Una parte di me era certa che non mi avrebbero assolto. Non avevo fiducia nella giustizia e quindi decisi che prima di tornare in carcere, se così sarebbe stato, avrei percorso ancora una volta il cammino di Santiago.

Sulla via del ritorno fui raggiunto dalla telefonata nella quale Franca mi comunicava la piena assoluzione.

Fu una vittoria, ma conquistata ad un caro prezzo perché vissi quegli anni, ben undici, con la prospettiva di non riuscire a dimostrare la mia innocenza.

Al termine di questa sofferta vicenda giudiziaria affidai un breve comunicato agli organi di stampa. Con alcune precisazioni misi la parola fine a lungo iter giudiziario.


Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni

 

Accadde domani. 21 ottobre 1981. Un commando armato formato Alessandro Alibrandi, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini, Giorgio Vale, Stefano Soderini, Walter Sordi uccide il capitano di P.S. Francesco Straullu e la guardia scelta Ciriaco Di Roma.  Mimmo Magnetta ricorda l’incontro con il capitano Straullu che ha coordinato il suo arresto al valico del Gaggiolo.

Accadde domani. 21 ottobre 1981. Un commando armato formato Alessandro Alibrandi, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini, Giorgio Vale, Stefano Soderini, Walter Sordi uccide il capitano di P.S. Francesco Straullu e la guardia scelta Ciriaco Di Roma.  Mimmo Magnetta ricorda l’incontro con il capitano Straullu che ha coordinato il suo arresto al valico del Gaggiolo.

21 ottobre 1981. Un commando armato formato Alessandro Alibrandi, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini, Giorgio Vale, Stefano Soderini, Walter Sordi uccide il capitano di P.S. Francesco Straullu e la guardia scelta Ciriaco Di Roma.  Mimmo Magnetta ricorda l’incontro con il capitano Straullu che ha coordinato il suo arresto al valico del Gaggiolo

Il mio percorso carcerario, dopo l’arresto, è riassumibile nelle seguenti tappe. I primi due giorni li trascorsi a Varese in camera di sicurezza, poi ne trascorsi cinque a Roma, sempre in camera di sicurezza. Al mio arrivo a Roma c’era ad accogliermi il capitano di P.S. Francesco Straullu. So che in cambio della collaborazione Straullu aveva offerto ad altri la cifra di trecento milioni di lire e una nuova identità.  Con me e con Dimitri non accennò mai a eventuali prospettive di collaborazione. Appena scesi dalla macchina che mi aveva portato dalla questura di Varese a Roma, lui volle vedermi. Io ero scortato da due poliziotti. Mi venne incontro con modi affabili chiedendomi se gli concedevo l’onore di stringergli la mano. Era un uomo giovane, non molto alto. Vestiva in borghese, indossava una maglietta polo, un golf arrotolato in vita e jeans. Dalle tasche spuntava arrotolata una copia de “Il Manifesto”. Io gli chiesi chi fosse. Lui si presentò come il capitano Straullu, colui che aveva coordinato l’operazione che aveva portato al mio arresto. Io gli risposi con un “complimenti”. Poi insistette nel volermi stringere la mano e gli chiesi il motivo.

– Tu e il tuo amico Peppe Dimitri siete gli unici della banda dei Nar che sapete perché fate certe cose. Agli altri vostri camerati bisogna dare uno schiaffo per parlare e due per farli stare zitti.

Gli diedi la mano. Era un po’ come ricevere l’onore delle armi. Lui si accorse dei segni che portavo in volto, frutto del trattamento ricevuto a Varese una volta tratto in arresto. Lo stesso procuratore di Varese, giorni prima, alla presenza dei sette operatori di polizia che mi avevano menato, mi aveva invitato a parlare e a fare i nomi degli agenti che mi avevano pestato.

– In questa stanza l’unico a non dover avere paura sono io… – risposi al procuratore.

Gli agenti erano in piedi, messi a semicerchio intorno a me. Sentivo il loro fiato sul collo. Li avevo guardati uno per uno e poi, rivolgendomi al Procuratore, avevo dichiarato, come si usava, che ero caduto dalle scale. Era evidente che non poteva essere andata così, ma, come era regola mia e degli avanguardisti, non avevo parlato. Firmata la dichiarazione venni portato fuori dalla stanza. Qui uno dei poliziotti mi disse:

– Mimmo, ti dobbiamo delle scuse. Ci devi scusare…

Io li mandai affanculo, gli dissi di riportarmi in cella e che delle loro scuse me ne fregavo.

Straullu con me fu gentile. In quei cinque giorni che rimasi in cella di sicurezza a Roma in questura, dato che fin dal primo momento dell’arresto non avevo toccato cibo, mi fece arrivare parecchie cose extra da mangiare: maritozzi con la panna, spremute d’arancia e altro. Io continuai però a non toccare cibo.

Tratto da: Domenico “Mimmo” Magnetta, Ippolito Edmondo Ferrario, Una vita in Avanguardia Nazionale, Ritter Edizioni

 

 

Accadde Domani. 11 ottobre 1971. I neofascisti della Fenice si scontrano davanti al al liceo Manzoni di Milano con militanti dell’estrema sinistra

Accadde Domani. 11 ottobre 1971. I neofascisti della Fenice si scontrano davanti al al liceo Manzoni di Milano con militanti dell’estrema sinistra

11 ottobre 1971. I neofascisti della Fenice si scontrano davanti al al liceo Manzoni di Milano con militanti dell’estrema sinistra

Pochi mesi dopo, l’11 ottobre dello stesso anno, insieme ad altri camerati mi ritrovai nuovamente coinvolto in pesanti scontri in strada. Avevamo da poco terminato un volantinaggio presso l’Università Cattolica di Milano. Ci dirigemmo a piedi verso via Torino e arrivammo nei pressi del Carrobbio. Probabilmente avevamo ancora sottobraccio dei volantini o qualche copia dei nostri giornali. Questo materiale ci fece identificare facilmente come fascisti. Incontrammo sulla strada degli appartenenti al movimento studentesco. Eravamo in diversi: oltre a me, Marco De Amici, Benedetto Tusa (mio futuro avvocato), Pietro Battiston e Carlo Lovati. Scoppiò una rissa violenta. Alcuni di noi erano armati di coltelli e taglierini. Lo scontro fu più verbale che fisico, ma eravamo in netta minoranza e la situazione stava volgendo al peggio. Ad un certo punto pensammo di rifugiarci all’interno del liceo classico Manzoni che era lì vicino e dove la polizia venne poi a prenderci per arrestarci. Marco De Amici non riuscì a riparare all’interno del liceo e lì fuori venne aggredito restando ferito. Questo episodio è sintomatico del clima di odio instaurato nei confronti dei neofascisti.

Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni

 

 

Accadde domani. 5 settembre 1974. Cesare Ferri si consegna per entrare in carcere

Accadde domani. 5 settembre 1974. Cesare Ferri si consegna per entrare in carcere

5 settembre 1974. Cesare Ferri si consegna per entrare in carcere.

La fine di agosto si avvicina. Mentre è al mare apprende da un quotidiano di essere ricercato. L’articolo è inequivocabile. I giudici lo vogliono arrestare perché lo ritengono autore dell’attentato firmato dalle Sam alla sede del Psi di via Crescenzago, attentato nel quale lui non c’entra. Naturalmente il profilo di Cesare Ferri che compare sul giornale non è dei migliori. Inevitabilmente pensa a quello che hanno già scritto di Giancarlo,
e capisce d’essere l’uomo perfetto da accusare soprattutto da morto. Sceglie quindi di tornare a Milano e si prepara a costituirsi per difendersi.
«Decisi di tornare principalmente per l’accusa infamante di essere uno stragista. Non potevo tollerare che me la cucissero addosso. Oltre al fatto che ero certo che si stesse cercando di farmi fare la fine di Giancarlo».
Ferri si incontra con il suo legale e poi con i camerati. Sente che è il momento dei saluti, il carcere lo attende. È il 5 settembre del 1974 quando fa il suo ingresso a San Vittore. Inizia così un lungo iter giudiziario diviso su più fronti processuali.
«Quando si celebrò il processo contro Loi e Murelli anch’io fui presente insieme ad altri camerati. Ero dentro per l’attentato in via Crescenzago alla sede del Partito Socialista Italiano. Il giorno della lettura della sentenza pronunciata dalla Corte di Assise ero in aula ad assistere in quanto coimputato per resistenza a pubblico ufficiale e adunata sediziosa. Eravamo tutti insieme. Fu lì che accogliemmo la lettura della condanna con il Sieg Heil gridato in aula e accompagnato dal saluto nazionalsocialista. Un gesto che rimase impresso nella memoria di molti. Nei giorni del processo si verificarono diversi episodi, tra cui il mio alterco con Rea che allora dirigeva l’Ufficio Po litico della Questura. Lo sfidai a duello e lui sbiancò…Ma andiamo avanti… Mentre ero detenuto per le Sam, mi arrivò l’indizio di reato per tutti gli attentati compiuti in Alta Italia dal 1969 al 1974, come ho scritto in ‘San Babila la nostra trincea’. Poi mi spiccarono il mandato di cattura per il Mar di Carlo Fumagalli e per Ordine Nero. Fui condannato per l’attentato di via Crescenzago a due anni e due mesi. Successivamente fui indiziato come esecutore della strage di Brescia. Per quest’ultima venni sottoposto a interrogatori che duravano
una media di dieci ore. Si svolgevano in presenza in genere di due o tre pubblici ministeri, un giudice istruttore e sei o sette avvocati di parte civile. Al termine del primo interrogatorio a Brescia ricordo che tornai
in cella e senza neppure svestirmi, mi sdraiai così com’ero e mi addormentai esausto. Era solo l’inizio del mio periodo di detenzione che sarebbe durato fino al 1978.

Tratto da: Susanna Dolci, Ippolito Edmondo Ferrario, Cesare Ferri. Genesi di un ribelle, Edizioni Settimo Sigillo

 

 

Accadde Domani. 3 luglio 1984. Muore in un conflitto a fuoco con i carabinieri Rodolfo Crovace detto “Mammarosa”

Accadde Domani. 3 luglio 1984. Muore in un conflitto a fuoco con i carabinieri Rodolfo Crovace detto “Mammarosa”

3 luglio 1984. Muore in un conflitto a fuoco con i carabinieri Rodolfo Crovace detto “Mammarosa”.

Anche noi qualche volta ricorremmo ad aiuti esterni, cioè alla squadra di Avanguardia Nazionale che veniva da fuori: era composta numericamente da pochi elementi, ma risultò determinante specie negli scontri con i katanga, diversi dei quali finirono accoltellati. Questo servì a restituirci una certa tranquillità all’interno della scuola: sapevano che noi, benché in pochi, eravamo agguerriti e cattivi. Il periodo di tregua che ne derivò fu breve e illusorio. Le vicissitudini personali e gli arresti ridussero il numero dei componenti di questo nostro supporto esterno. I compagni vennero a saperlo e ci ritrovammo all’interno della scuola sempre più soli. Ripresero dunque a usarci come bersaglio. In questa seconda fase qualche volta fece la sua comparsa, fuori dallo Zappa, Rodolfo Crovace detto “Mammarosa”, figura di spicco in San Babila.
Un giorno la sua apparizione fuori dall’istituto smorzò gli animi dei compagni. Con i loro modi teatrali “Mammarosa” e Mario Di Giovanni iniziarono a passeggiare sotto le finestre dello Zappa, salutandoci e facendo cenni con cui volevano tranquillizzarci perché “c’erano loro”.
Un altro giorno Mammarosa entrò nel bar Celeste, un locale all’angolo tra viale Marche e via Lario, noto ritrovo di compagni. Vi arrivò da solo e si mise al telefono a gettoni. Fece finta di telefonare e fu attento che i presenti sentissero bene le sue parole rivolte all’interlocutore immaginario. Più o meno disse che era al bar Celeste, ritrovo di “comunisti di merda” e che aspettava che uscissero da scuola i camerati. Finì la telefonata dicendo che se qualcuno avesse provato a dare fastidio ai suoi amici avrebbe fatto i conti con lui. Detto questo mostrò con gesto plateale le due pistole che teneva alla cintura. Tra gli avventori del bar calò il gelo. Quel gesto servì a garantirci ancora un po’ di tranquillità, forse qualche settimana. Poi la situazione peggiorò e una mattina che c’era manifestazione fummo costretti ad uscire dall’istituto passando in mezzo a due cordoni di compagni che ci riempirono di sputi, calci e pugni.
Tratto da: Domenico “Mimmo” Magnetta, Ippolito Edmondo Ferrario, Una vita in Avanguardia Nazionale, Ritter Edizioni