Il macellaio del Verziere

Il macellaio del Verziere

Ripropongo qui di seguito, in una veste nuova e rivisitata, un racconto noir uscito qualche anno fa nell’antologia “Delitti alla milanese” curata da Gianluca Margheriti.

Buona lettura

Il macellaio del Verziere

Milano, dicembre del 1965

“Non è possibile? Era tutto quello che avevamo…Come faremo desso?! Sei un maledetto…” mormorò la donna incredula mentre singhiozzava.

Lei e lui erano nel retro del loro negozio. Il marito la guardava immobile, non sapendo cosa dire o fare.

Non provava vergogna, ma semmai fastidio nel dover rendere conto alla moglie di ciò che aveva fatto.
Tutti i nodi vengono al pettine, così si dice, ma Luigi aveva sperato di poter risolvere da solo quel debito che ogni giorno era diventato sempre più grande. Un’illusione che aveva nutrito per mesi.
“La giocata… la prossima giocata sarà quella fortunata” diceva a sé stesso quando usciva dalla bisca del Tino, in quel sottoscala fumoso della Vetra, dove trascorreva sempre più spesso le sere.
Rincasava in piena notte, barcollante, con i sensi anestetizzati dal vinaccio nero.

A volte si doveva appoggiare ai muri dei palazzi, colto dal senso di vertigine che l’alcool gli induceva.

Non di rado si fermava a vomitare per strada, da solo, alla stregua di un reietto.
Si riprometteva che dal giorno dopo sarebbe cambiato tutto, giurava a sé stesso che avrebbe chiuso con quella vita dissoluta.
I soldi ormai non bastavano più, la posta in gioco era sempre più alta.
E poi c’era lei, Anna, che aveva il potere di chiedergli qualsiasi cosa.

Quando lei gli si metteva tra le gambe lui era in suo potere, ammaliato da quegli occhi neri.

La donna, oltre a succhiargli il cazzo, sembra volesse ingoiargli l’anima.
“Non abbiamo più nulla” disse Maria che aveva investito l’eredità dei genitori in quel piccolo negozio di macelleria dopo anni di sacrifici.
Tutto sembrava perduto. Il conto corrente era stato svuotato dalla follia di Luigi, soggiogato dal demone del gioco e della lussuria.
La fine del mese non era ancora arrivata, ed erano già in ritardo con i fornitori da pagare.
Ma quelle che Luigi usava come scuse, errori della banca, come li chiamava lui, si erano ben presto rivelate un castello di bugie.
La lettera inviata dall’istituto stesso e aperta da Maria quella mattina stessa non lasciava dubbi.
Il conto era in rosso di parecchio e le spese continuavano ad aumentare.

Quella mattina Maria si era recata in piazza Fontana, presso la banca di cui erano clienti, scoprendo gli ammanchi.
Luigi aveva continuato a prelevare soldi e ora non avevano più nulla.
A quel punto il marito non aveva più potuto nasconderle la verità.

Se non avessero rispettato i trenta giorni di tempo concessi per saldare gli arretrati, le cose si sarebbero complicate.

Per non parlare di tutte le spese che sarebbero ancora arrivate.
“Vedrai, troveremo una soluzione. Se solo avessi ancora qualche soldo da giocare, potrei fare il colpo.

So che posso vincere” obbiettò lui nella sua follia, non rendendosi conto che la bisca era truccata .
Tino, che aveva un night-club, e gestiva la bisca nello scantinato attiguo riadattato a locale, aveva visto in Luigi il perfetto pollo da spennare, esattamente come quelli che l’uomo vendeva ai propri clienti del Verziere.
Tino aveva l’occhio clinico per individuare i soggetti deboli e vulnerabili; con la complicità di Anna aveva lentamente ridotto Luigi sul lastrico.
Tutto era iniziato una sera come tante, la prima volta che Luigi era andato con degli amici al night-club.
Complice lo champagne, il macellaio aveva parlato del lavoro, della sua bottega di carni che era la più rinomata del quartiere e del fatto che dopo anni di stenti era riuscito a uscire dalla miseria.
Aveva mostrato un Rolex d’oro al polso che aveva comprato da un non meglio precisato amico che gli procurava ori e preziosi a buon prezzo.
Quella stessa sera Tino aveva invitato Luigi ad andare a giocare da lui, in un ritrovo privato dove si poteva giocare soldi lontano, da occhi indiscreti.

Un posto per uomini di mondo, come lo aveva definito lui stesso sapendo di fare breccia nel macellaio. Lo aveva radiografato subito.
Gran lavoratore Lugi Brambilla, ma con un tallone d’Achille, un punto debole: per avere quello che ora possedeva aveva dovuto sudare e faticare come aiuto garzone nella stessa macelleria che poi rilevato, insieme a sua moglie, dal vecchio signor Cagnazzi.
Dunque una vita di privazioni. Ora che aveva raggiunto una certa solidità economica, Luigi voleva provare il brividio del vizio e di tutto ciò che fino a quel momento gli era stato precluso.
Le prime sere aveva pure guadagnato qualcosa a vincendo a poker e a scopa, ma poi la fortuna aveva cominciato a voltargli le spalle.
Se al gioco non era più fortunato a consolarlo c’era lei, Anna, che gli alleviava le pene del giocatore sfortunato, facendogli vivere sensazioni che sua moglie Maria, donna timorata di Dio, gli negava.

***

“Tu sei pazzo? Sei un mostro” commentò Maria sgomenta di fronte alla proposta del marito.
Era sera e stavano cenando a casa, nel loro appartamento di via Maddalena.
Ormai ogni giorno non facevano che discutere della situazione in cui si erano ritrovati.
“Allora preparati a perdere tutto. Ci pignoreranno il negozio, ci porteranno via tutto. Senza il negozio non abbiamo altre entrate” aggiunse lui cercando di convincerla.
“Dimenticavo, c’è anche l’affitto di casa. Con quali soldi lo pagheremo? Non abbiamo più nulla” aggiunse con un tono arrogante.
Luigi al posto di mostrarsi pentito per quello che aveva fatto, trattava la moglie con disprezzo, quasi fosse lei la causa che lo aveva spinto ad una vita dissoluta.
“Ci sono i gioielli di mia mamma. Forse con quelli potremo tirare avanti” abbozzò Maria mortificata.
“Con quella robetta ci paghiamo forse un mese di affitto. Se non facciamo come dico io, devi essere disposta a vivere in strada. Quella è la fine che faremo. Dovremo cambiare quartiere, a meno che tu non voglia farti vedere dalle tue clienti in mezzo ad una strada a fare la questua”
“Qualcuno sarà disposto ad aiutarci!”
“Tu dici?! Ti ricordi quando avevamo bisogno di un prestito e nessuno ci ha voluto dare una mano? Adesso sarebbe anche peggio”
“Ma io non voglio fare del male a nessuno” piagnucolò lei.
“Tu non dovrai fare nulla, ci penserò io. Vedrai che sarà più facile di quello che credi.

E poi il Carlino è sempre bevuto. Non si ricorderà di nulla” fece lui, biascicando un pezzo di michetta del giorno prima, ormai rafferma.

***

Il giorno successivo in negozio la carne scarseggiava. Era rimasto del pollame, della polpa per bistecche, polmoni, interiora, nodini di vitello.
I clienti quel giorno di dicembre, freddo e piovoso, guardavano le vetrine della macelleria e tiravano avanti.

Era come se intorno al negozio di Luigi cominciasse a respirarsi aria di disgrazia.
Poco prima di mezzogiorno entrò, come quasi ogni giorno, Carlino.
Sessant’anni, vedovo da una decina, aveva ereditato da una vecchia zia due cascine nel lodigiano, due floride aziende agricole che gli garantivano ottime entrate, oltre a due appartamenti in via Broletto che aveva messo a frutto.

Carlino si era così assicurato la vecchiaia e non solo quella.
Aveva il vizio delle prostitute e del bere. Un tempo era stato un bell’uomo e forte del suo fascino, ci provava con tutte le donne del quartiere, sposate e non.

Un Don Giovanni alla milanese, amante del cibo e delle forme giunoniche.
Nonostante Maria non fosse né giunonica, né tantomeno appariscente, Carlino aveva un debole per quella donna sempre affabile e gentile, sorridente con i clienti. Nel quartiere si diceva che facesse anche lo strozzino.

Prestava soldi alla gente in difficoltà ed era spietato se qualcuno pensava di gabbarlo.
Girava voce che avesse un amico siciliano, che lavorava al mercato ortofrutticolo, al quale affidava il recupero dei crediti.
“Buongiorno Luigi, Buongiorno Maria” disse entrando nel negozio e guardandosi intorno con aria perplessa.
“Buongiorno signor Carlo” avevano risposto i coniugi Brambilla, scambiandosi uno sguardo d’intesa.
“Che cosa le posso dare oggi?” gli domandò Luigi più affabile del solito.
“Lugànega. Oggi voglio la vostra lugànega. Me la cucino col vino rosso” annunciò l’uomo, soddisfatto del proposito culinario del giorno.
Luigi fece un’espressione vagamente dispiaciuta.
“Non l’abbiamo ancora preparata. Se ha pazienza nel pomeriggio gliela facciamo trovare fresca come piace a lei” fece il macellaio accomodante.
Carlino bestemmiò.
“Venga nel pomeriggio, alla riapertura. Gliela do io, non appena finiamo di farla” si premurò di aggiungere Maria.

La donna sembrava a disagio.
“Ghe nient chi, ostia” sibilò Carlino riferendosi al bancone vuoto.
“Ricordati che oggi non ci sono tutto il pomeriggio e devi fare banco e cassa” aggiunse Luigi rivolgendosi alla moglie.
“Il signor Carlino può venire anche prima dell’apertura.

Io in pausa non mi muovo da qui” specificò Maria, con uno strano sorriso indirizzato all’uomo.
“Fai come vuoi. Io tra poco devo andare” aggiunse Lugi.
Quelle parole innescarono strani pensieri nella mente di Carlino.
Biascicò qualcosa e parve rabbonirsi. Fece spallucce.
“Allora vengo dopo pranzo” disse prima di congedarsi.

***

Maria era immobile, incapace di reagire. Accanto a lei c’era il bicchiere di grappa, ancora mezzo pieno. Carlino la sovrastava, tenendola forte per il collo con le sue grosse mani.
Lei era appoggiata al tavolaccio, con il freddo del piano di marmo che le faceva indurire i capezzoli dei seni schiacciati.
L’uomo, ubriaco, cercava, senza riuscirvi, di slacciarsi i pantaloni.

Le sue dita tozze sembravano incapaci di sfilare il bottone dall’asola. Stava lottando anche con la cintura, ma non voleva mollare la presa su Maria. L’idea di averla lì, nel retro negozio, disponibile a farsi montare, lo faceva impazzire.
Barcollava per l’alcool; per reggersi in piedi la schiacciava giù.
Maria aveva il fiato strozzato e digrignava i denti.

Nelle narici sentiva l’odore intenso del sangue e della carne che su quel tavolo veniva macellata.

I minuti parvero infiniti.
Alla fine riuscì a denudarsi e a prendersi in mano il pene. Maria lo sentì tra le natiche che premeva.
Poi un grugnito, rauco, animalesco, si levò alle sue spalle.

La donna provò una strana sensazione di umido sulle guance, come se avesse qualcosa di bagnato l’avesse toccata. Carlino lentamente abbandonò la presa, permettendole di tornare a respirare. Maria ansimava col fiato rotto, incredula più per la situazione nella quale si era ritrovata, che per il resto.

Era mezza nuda, i capelli scarmigliati, la gonna arrotolata sui fianchi, sgualcita, le mutande strappate.
Si voltò e rabbrividì. Carlino la guardava incredulo, tastandosi il collo con la mano destra, in un gesto frenetico. Aveva la bocca distorta in una smorfia di stupore e sgomento. Non poteva essere vero.
Era in piedi davanti a lei coni pantaloni abbassati, il cazzo semi turgido che penzolava.
Le dita della sua mano avevano incontrato, sgomente, il freddo acciaio della mannaia che Luigi, da dietro, gli aveva conficcato alla base del collo. Era stato un colpo netto, come quando c’era da tagliare l’osso dei nodini.

La lama era penetrata nella carne come se fosse burro. Il sangue era schizzato fuori, zampillando sulle guance piene della moglie del macellaio. Carlino non provò dolore nel sentire che la vita gli scivolava via nel retrobottega della macelleria dei coniugi Brambilla.
Almeno così parve a Maria che lo vide accasciarsi piano, in un rantolo osceno che durò pochi istanti.

***

“Ho dovuto farlo… Quel maiale schifoso ti voleva fare. Ha avuto quello che si meritava” sibilò Luigi stralunato, con gli occhi neri che sembravano uscirgli dalle orbite e un ghigno bieco che gli deformava il volto pacioso.

Carlino giaceva a terra morto con la esta quasi staccata dal collo, con il sangue che andava formando un lago scuro, denso e spesso.
“Dovevamo solo farlo bere! Adesso che cosa facciamo?!” strillò Maria portandosi le mani al viso.

Era disperata e inorridita.
Luigi per tutta risposta, osservando il cadavere con odio, vi sputò sopra in segno di disprezzo.
“Non startene impalata. Stasera andrò a ripulirgli la casa. E adesso diamoci da fare. Vai a mettere il cartello che oggi restiamo chiusi. Abbiamo tanto lavoro da fare- le ordinò il marito che fin dall’inizio aveva pensato di far fuori Carlino.
“Ci arresteranno…La polizia ci scoprirà, finiremo…”
“Taci e fai quello che ti dico- le urlò lui con aria spiritata.

In quel momento avrebbe potuto uccidere anche lei se non avesse obbedito.
Luigi aveva perso ogni freno inibitorio o remora morale.

Avrebbe portato a termine il suo folle progetto con la complicità della moglie. La donna non aveva alternativa.
Quel pomeriggio di dicembre la macelleria dei coniugi Brambilla al Verziere rimase chiusa anche se era un giorno della settimana. Nessuno ci fece caso, visto che ormai negli ultimi tempi nel negozio la carne scarseggiava.
Il cadavere del Carlino venne spogliato.

Maria ne avrebbe bruciato i vestiti nella stufa a carbone di casa la sera stessa, riducendoli in cenere. Una volta messo sul tavolaccio, nudo, senza più vita, il macellaio del Verziere provò uno strano piacere nell’avere a sua completa disposizione il corpo di un uomo che un tempo lo metteva in soggezione.
Per prima cosa volle evirarlo e castrarlo. Mise da parte i testicoli e il pene che avrebbe utilizzato successivamente.
Poi si dedicò con tutta la sua perizia al cadavere.

La dissezione richiese ore di lavoro. Andò avanti fino alle dieci di sera. Fu un’operazione bizzarra, ma istruttiva al tempo stesso. Per uno abituato alla macellazione di animali fu come provare qualcosa di nuovo, un nuovo campo di sperimentazione.
Non provò disgusto, ma procedette senza fretta, cercando di non buttare via nulla, esattamente come si faceva con la carne di maiale.
La sera stessa, dopo la mezzanotte, il macellaio si introdusse nell’appartamento dell’uomo che abitava in via Laghetto. Sapeva esattamente dove abitava perché in passato gli aveva consegnato la carne a casa.

Nessuno si accorse di lui. A quell’ora il quartiere era deserto. Frugò in tutta la casa e alla fine trovò quello che sperava: orologi, alcuni di valore, contanti e gioielli, per lo più ori. Probabilmente erano i preziosi che la gente gli dava in pegno. Setacciò la casa da cima a fondo.
Verso le tre del mattino, in silenzio, se ne andò.

Quando tornò a casa trovò Maria a letto che dormiva profondamente.

Dal giorno successivo la macelleria dei coniugi Brambilla riaprì e il bancone tornò lentamente a essere rifornito di carne. Quello che avevano in gran quantità era la luganega. Ce n’era tanta, a rotoli lunghissimi.

Aveva un aspetto chiaro, forse un po’ esangue, ma era fortemente profumata grazie all’ aglio, al pepe e al finocchietto che Luigi aveva abilmente dosato. Aveva poi aggiunto il brodo di carne, il Marsala e il grana padano per rendere perfetto l’impasto macinato.

In pochi giorni la esaurì tutta e alcuni dei clienti la ricomprarono più di una volta facendogli i complimenti per quanto era buona. Luigi sorrideva, ringraziandoli. Non poteva dire loro che l’ingrediente segreto era Carlino.

 

 

 

Quel 31 dicembre 1968 nel deserto dello Yemen

Quel 31 dicembre 1968 nel deserto dello Yemen

Quel 31 dicembre 1968 nel deserto dello Yemen

 

Il mio migliore augurio per lasciarci alle spalle questo infausto 2020 e affrontare  a testa alta l’anno che verrà.

Ippolito

 

Il 31 dicembre

eravamo ancora in pieno deserto e puntavamo

sempre a nord. Avevamo l’impressione di esserci persi

in quel mare di sabbia, così affascinante, misterioso

e volubile per le dune che cambiavano altezza e posizione

a seconda della direzione del vento. la sabbia si

infilava ovunque, malgrado i fazzoletti che tenevamo

sulla bocca e gli occhiali che proteggevano gli occhi.

In quel paesaggio incredibile a un certo punto cominciammo

a vedere delle ossa bianche che affioravano

lungo la pista. Ci fermammo. Ce n’erano tantissime

per qualche centinaio di metri: ossa, teschi ma

anche scarponi. Trovammo anche i brandelli di un

paracadute, mimetiche e un elmetto russo. era l’equipaggiamento

in dotazione alle truppe egiziane inviate

da nasser. I teschi erano moltissimi. non so

quanti potessero essere i morti lì presenti. giacevano

insepolti o sepolti grazie alla «pietà» del deserto.

Questa volta non facemmo come in Congo, dove avevamo

preso dei teschi per adornare le jeep e i camion.

Robert Muller, paracadutista, volontario di guerra

R.Muller, I.E. Ferrario, “Un parà in Congo e Yemen 1965, 1969”, Mursia

Accadde Domani. Ultimi giorni di dicembre del 1968 nel deserto dello Yemen

Accadde Domani. Ultimi giorni di dicembre del 1968 nel deserto dello Yemen

Accadde Domani. Ultimi giorni di dicembre del 1968 nel deserto dello Yemen

La fine della mia «avventura» si stava avvicinando.

Era il dicembre del 1968 e mentre montavo la guardia ripresi a pensare per ingannare il tempo.

La solitudine del deserto si può paragonare al mare. Il mare è immenso, meraviglioso, per certi aspetti non dissimile dal deserto. Quando verrà il mio momento, spero di andarmene avendo di fronte il mare. Che sia calmo o in burrasca mi dà un senso di estrema serenità.

Di notte, con il cielo pieno di stelle, mi riempie di una pace interiore assoluta.

Ascolto il mare sdraiato sulla sabbia ed è come se ascoltassi me stesso. Il deserto, a differenza del mare, sembrerebbe un luogo privo di vita, ma un osservatore attento sa che non è così. C’è sempre qualcosa che si muove: lo scorpione che esce di notte col favore delle tenebre, qualche ragno, i serpenti che a volte rotolano giù dalle dune di sabbia.

Durante il giorno cambia tonalità di colore in continuazione.

Rosa cupo al mattino e alla sera quando nasce e cala il sole, rosa tenue quasi color albicocca durante l’arco della giornata. Quando c’è una leggera brezza la sabbia si muove come piccole onde e quando soffia il Simùn, vento simile al Ghibli, le dune mutano posizione come se fossero grandi onde.

La notte nel deserto assume una dimensione magica, intima e quando la temperatura scende, le stelle diventano brillanti. Mi sembra di vedermi ancora infilato nel sacco a pelo, nella buca che si scavava per passare la notte.

Nel deserto si è portati a parlare a sè stessi, a porsi delle domande a cui spesso si danno delle risposte che alle volte non ci piacciono.

Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Un parà in Congo e Yemen 1965-1969, Mursia

ACCADDE DOMANI. 25 NOVEMBRE 1981. IL TENTATO GOLPE ALLE ISOLE SEYCHELLES NELLA TESTIMONIANZA DI TULLIO MONETA (Terza parte)

ACCADDE DOMANI. 25 NOVEMBRE 1981. IL TENTATO GOLPE ALLE ISOLE SEYCHELLES NELLA TESTIMONIANZA DI TULLIO MONETA (Terza parte)

ACCADDE DOMANI. 25 NOVEMBRE 1981. IL TENTATO GOLPE ALLE ISOLE SEYCHELLES NELLA TESTIMONIANZA DI TULLIO MONETA (Terza parte)

Si decolla

Si decide di partire. Le armi, una volta in volo e fuori del tiro della mitragliera, verranno smontate e consegnate al comandante Saxena. 

I mercenari salgono tutti, compresi i tre feriti: uno alla gamba, un altro al braccio e un terzo, di cui Tullio non ricorda dove era stato colpito. Il morto viene messo nella chiglia.

Rimangono a terra il colonnello Hoare, il maggiore Moneta e Kurt Priefert, con il compito di allontanare dal Boeing la scaletta d’imbarco. Salirebbero poi con una scaletta di corda, calata dal portello della 1^ classe.

Mike Hoare rimane pensieroso, poi sbotta: «Io non parto. Rimango con la Résistence e organizzo la rivolta.»

Tullio gli fa presente che la Resistenza organizzata non esiste, che mentre i mercenari combattevano la Resistenza se ne stava chiusa in casa. Se si fossero uniti a loro, con le armi conquistate ai soldati tanzaniani, avrebbero potuto organizzare la guerriglia e magari battere il regime di René…

Hoare sembra irremovibile. Ciò che è avvenuto e per come è avvenuto lo considera come una sconfitta personale, un’onta al suo nome.

«Va bene, colonnello Hoare,  allora rimaniamo pure noi. Non la lasceremo sola. O andiamo via tutti, e lei con noi, oppure restiamo tutti» dice Tullio.

Di fronte allo sguardo determinato di Tullio e di Kurt, che giocherella con la pistola, il colonnello Hoare abbassa il capo e accetta di salire per la scaletta di corda, seguito dagli altri due.

Il Boeing rulla sulla pista e si solleva.

Appena è in volo, ecco che la mitragliera a quattro canne comincia a sparare. Al comandante Saxena sarà sembrato di essere ritornato in guerra.

Con la differenza che i tedeschi lo avrebbero abbattuto, mentre i soldati delle Seychelles non calcolavano che avrebbero dovuto indirizzare il tiro avanti al Boeing di sei lunghezze del Boeing stesso.

I colpi finiscono quindi di molto oltre la coda dell’aereo. I traccianti e gli scoppi dei proiettili a 1500 metri d’altezza sembrano uno spettacolo pirotecnico di addio ai mercenari e ai passeggeri, che si godono la scena. Come promesso, le armi vengono smontate e consegnate al comandante Saxena, avvolte in una coperta.

Viene stappata una bottiglia di Dom Perignon per un brindisi. Poi, Dunlop Paul comincia a spiegare la situazione e come si era creata.

I passeggeri, ormai rilassati dopo i drammatici momenti vissuti, iniziano ad interrompere Paul con domande pressanti. Al che, spazientito, Paul inizia a zittirli, chiedendo loro di calmarsi…

Cominciava ad eccitarsi pure lui. Si sentiva un “Rambo”, malgrado  non avesse mai partecipato ad azioni di guerra prima d’allora. Interviene allora Tullio e gli intima di smetterla e di mettersi a sedere. Poi chiede scusa ai passeggeri, rassicurandoli che essi non sono terroristi.

Il viaggio continua così, nel silenzio. Una giovane passeggera si era intanto innamorata del mercenario Nick Wilson. Tutti e due se ne stanno a baciarsi in coda all’aereo, in attesa di arrivare a Durban.

Paddy Henrick commenta oggi quel fallito golpe, a 32 anni di distanza: «Se il nostro governo sudafricano ci avesse detto di conquistare le Seychelles – mi scrive – lo avremmo fatto. Comunque, ci avevano detto che il golpe sarebbe dovuto essere senza spargimento di sangue; avevamo quindi le mani legate e fummo costretti ad un abbandono prematuro. Purtroppo, in guerra ci sono delle vittime. La vegetazione dell’isola era il terreno ideale per noi, perché ci eravamo addestrati in terreni molto più aspri. Ricordo che la maggior parte di noi era formata da soldati molto esperti in confronto all’esercito delle Seychelles. Eravamo una forza allenata a combattere e a distruggere il nemico a tutti i costi.»

Un particolare che circola nel  giro negli ambienti bene informati è che “qualcuno” avrebbe voluto abbattere il Boeing con un missile SAM di fabbricazione sovietica mentre erano in volo sull’oceano, diretto in Sudafrica.

Poiché alcuni servizi segreti occidentali erano coinvolti nell’”affaire Seychelles” non si voleva che chi tra i mercenari sapeva dei piani occulti potesse parlare durante il processo che si sarebbe senz’altro tenuto.

Per fortuna sull’aereo c’erano quaranta passeggeri civili ed alcuni ministri dello Zimbabwe e quindi si decise di non abbattere il Boeing, onde evitare grane peggiori.

Arresto e condanna

Il presidente René aveva fatto arrestare Dolinchek e gli altri cinque congiurati rimasti sull’isola.

Salvo Dolinchek che venne graziato dalla condanna a morte (pure per questo motivo il fallito golpe puzzava di tradimento da parte sua), gli altri furono condannati a morte.

Furono poi anch’essi graziati e andarono a scontare la pena del carcere in una deliziosa isola, come fossero turisti. Furono poi liberati definitivamente tutti e sei dietro pagamento da parte del Sudafrica di 5 milioni di dollari. Quanti furono i dollari pagati da parte USA non si sa.

Il generale boero André Beukes  disse che l’assunzione di Dolinchek fu uno dei più grandi errori fatti dai servizi sudafricani. Della stessa opinione erano il generale “Rassie” Erasmus e Craig Williamson, una superspia infiltrata nel KGB.

Il Boeing era atterrato a Durban e i quarantaquattro mercenari arrestati.

Vengono portati al carcere di Zonderwater che in afrikaans significa “senz’acqua” e si pronuncia “Zontervater”.

Zonderwater  era stato un campo di prigionia dei militari italiani durante la Seconda Guerra Mondiale.

E’ rimasto come allora, meta di pellegrinaggi degli Italiani. Dopo l’affondamento della San Giorgio a Tobruk, mio padre Ermanno era rimasto internato per sei anni a Zonderwater, insieme ad altri concittadini di Corridonia, la sua città, tra cui Rinaldo Ermini, che lo ricorda nelle sue lettere alla famiglia.

Finita la guerra e la prigionia, moltissimi prigionieri italiani si stabiliranno in Sudafrica, dove già era presente una comunità italiana numerosa, che li aiutava con affetto. 

Zonderwater, i mercenari rimasero un solo giorno. Furono interrogati durante un  briefing da alti ufficiali e rilasciati.

Un magistrato interrogò Hoare, Moneta, Duffy, Doorewaard, Dalglish, Web e Goatley ed alla fine li rilasciò. Ma lo scandalo del golpe alle Seychelles era diventato uno scandalo internazionale e i governi antiapartheid fecero un putiferio. Il governo sudafricano fu costretto ad arrestare di nuovo Hoare e gli altri golpisti

Il PM chiese 10 anni per ciascun reato (pirateria aerea, possesso di armi, e aver messo in pericolo la vita dei passeggeri), secondo il Civil Aviation Act n. 10, firmato a Toronto dal Sudafrica nel 1972. I 10 anni furono in seguito abbassati a 5 anni, poi a qualche mese da scontare nella prigione di Pretoria.

A Mike Hoare andò peggio con una condanna a 10 anni, poi ridotta, e scontata infine nella prigione di Pietermaritzburg, vicino a casa sua.

Giorgio Rapanelli, Ippolito Edmondo Ferrario, “Mercenario. Dal Congo alle Seychelles. La vera storia di Chifambausiku Tullio Moneta”, Edizioni Lo Scarabeo, Milano

Accadde domani. 28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup

Accadde domani. 28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup

28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup

Leleup era un volontario belga, ma nato in Congo. «Guy morì da eroe il 28 ottobre del 1967 durante le ultime fasi dell’assedio di Bukavu. Rimase a proteggere la ritirata dei suoi compagni e cadde prigioniero. Quando il colonello Schramme con altri uomini giunse in suo soccorso, Leleup, mentre era tenuto legato ad un albero, urlò a Scharamme avvisandolo dell’imminente imboscata e permettendogli di salvarsi. Leleup fu ucciso con un colpo di pistola in fronte. Venne poi decapitato e la sua testa infilzata su una baionetta per essere portata come trofeo dai soldati congolesi dell’ANC. Questa è la vera storia della morte di Guy Leleup del Para Groupe Cobra».

Così lo ricorda in alcuni significativi passaggi il colonello Jeanne Scharamme nel suo libro di memorie Il Battaglione Léopard. Ricordi di un africano bianco: «Di tutti i nuovi provenienti dalla 6a brigata quello che mi impressionò maggiormente fu il maresciallo Guy Leleup. Era un giovane idealista che conosceva perfettamente gli indigeni e ne parlava correttamente la lingua. Solitario per natura, era mal compreso dal suo comandante, il maggiore Noddyn. Ragazzi del genere erano l’opposto di ciò che normalmente viene chiamato un “mercenario”. Non poteva andar assolutamente d’accordo con Bob Denard e il suo lavoro non era mai stato apprezzato; ma è risaputo che i caratteri energici e le nature generose si rivelano nelle avversità (…)». Compresi subito che la morte di Leleup era un fatto estremamente grave: perdevo una delle posizioni-chiave ma anche uno dei miei migliori ufficiali, un vero simbolo di ciò che stavamo tentando di salvare in Congo: la fratellanza nelle armi tra bianchi e neri».

Tratto da: Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Maktub. Congo-Yemen 1965/1969, Ritter Edizioni.