Tullio Moneta ci ha lasciati. L’oca selvaggia è volata

Tullio Moneta ci ha lasciati. L’oca selvaggia è volata

 

Giovedì, 31 marzo 2022, Tullio Moneta ci ha lasciato.

Piace ricordare che combatté per due anni i ribelli Simba per conto dell’ONU con il 5 Commando mercenario anglosassone, fino a ricoprire il grado di Maggiore. Come comandante volontario, insieme ad una pattuglia di volontari, quindi non coperti da assicurazione in caso di morte o di ferimento, partecipò alla liberazione di suore, ostaggi dei Simba. Salvò dall’assassinio un ragazzo poliomielitico ed una vecchia congolese, trovati in un villaggio Simba.
Partecipò come vice-comandante del Colonnello Mike Hoare al fallito tentativo di golpe alle Seychelles per riportare nel campo occidentale il governo di quell’isola, che era stato usurpato da un golpe filomarxista.

Tullio Moneta, sotto la “copertura” di attore, ha sempre lavorato per l’”intelligence” occidentale contro quelle dell’Est sovietico, fino alla caduta del Muro di Berlino.

Tornò in Italia per curarsi una ferita alla gamba destra, causata da un attentato alla sua persona. Ha passato i suoi ultimi anni a Macerata, tra un ricovero e l’altro, soffrendo stoicamente fino alla fine, avvenuta nella tarda serata di giovedì 31 marzo nell’ospedale di San Severino Marche.

Tullio Moneta aveva sempre combattuto per la salvaguardia della civiltà occidentale. Aveva in programma di educare alla lotta i giovani su questa strategia, poiché si era accorto che la nostra millenaria civiltà europea era stata tradita. Non si riconosceva, quindi, nella nuova civiltà, imposta da interessi mondiali, che con l’Europa democratica dei popoli europei nulla ha a che vedere. Diceva che alle democrazie popolari sono state imposte “signorie e principati”, non scelte dal popolo. Quindi, pur nel suo piccolo, c’era da fare qualcosa per ristabilire i diritti dei popoli.

Mi chiedeva sempre, non potendolo magari farlo personalmente, di ringraziare per l’aiuto ricevuto in questi ultimi anni i Servizi sociali del Comune di Macerata, le ACLI, l’Ospedale civile di Macerata, la Clinica Marchetti, la Villa dei Pini e l’Istituto Santo Stefano, l’Ospedale Civile di Civitanova Marche, di Treia, di Camerino e di San Severino, dove è deceduto. E la Casa di Riposo di Mogliano, dove aveva vissuto per alcuni mesi. Infine, un saluto affettuoso ai diversi amici che in Italia hanno collaborato con lui, insieme a quelli maceratesi della sua giovinezza e a quelli di recente conoscenza.

31 marzo 2022

Giorgio Rapanelli


Ancora una testimonianza del Maggiore Tullio Moneta sull’epopea dei mercenari in Congo

Ancora una testimonianza del Maggiore Tullio Moneta sull’epopea dei mercenari in Congo

 “Non uccidetemi, non uccidetemi!”

I mercenari del 5 Commando di stanza a Baraka, la base militare lungo il lago Tanganika, compivano azioni di guerriglia contro i ribelli Simba, una, o due volte alla settimana, dietro indicazione dei villaggi congolesi, che fornivano pure scout e portatori di armi e viveri.

Senza questo aiuto i mercenari non avrebbero vinto i ribelli Simba.

Una volta, nel 1966, fu attaccato un grosso villaggio Simba nel Kivu.

Furono necessari due gruppi di dodici uomini ciascuno, più gli scout katanghesi e i portatori congolesi. La colonna di attacco era formata dal gruppo “Tiger” (tigre) del tenente Tullio Moneta e dal gruppo “Wildcat” (gatto selvaggio) del tenente Boet Schoeman.

Li comandava il capitano Peter Ross-Smith.

I gruppi venivano aggregati quando venivano attaccati forti contingenti di Simba, soprattutto quando occorrevano diversi giorni per le operazioni.

Partendo da Baraka, i due gruppi facevano percorsi diversi, di notte, per poi riunirsi prima dell’alba nei pressi del villaggio Simba.

Dopo la conclusione dell’azione, la ritirata avveniva velocemente sempre per sentieri diversi dai primi, per non essere intercettati.
Il villaggio, oggetto dell’attacco, era a circa duecento metri più in basso ed era sistemato in un bell’ordine razionale. Esisteva pure una costruzione di mattoni con tetto di lamiera.

Divideva in due il villaggio un ruscello di circa tre metri di larghezza, in cui scorreva un’acqua limpidissima.

Intorno al villaggio c’erano piantagioni di manioca.

Era l’alba e nel villaggio dormivano tutti e senza sentinelle.

Era un luogo di pace. Idilliaco…

I ventiquattro mercenari si prepararono ad attaccare in silenzio, a cinque passi l’uno dall’altro, per un fronte di cento metri, predisponendosi in due gruppi ad “L”, per il tiro incrociato. Intanto alcuni Simba si erano svegliati, predisponendosi per le abluzioni al ruscello e per la colazione.

Tacevano ancora insonnoliti, oppure parlottavano, ignari dell’attacco… Non c’erano bambini.
I mercenari, ad un segnale del capitano Ross-Smith col “walkie talkie”, scatenarono un inferno di fuoco… I Simba non tentarono una resistenza e, lasciando morti e feriti sul terreno, fuggirono abbandonando le armi e, attraversato il ruscello, si inerpicarono su per il costone di una collina, dove furono colpiti alle spalle.

Se ne salvarono pochi.

Nell’area del villaggio si contarono venti Simba morti. Nessun ribelle fu catturato.

Nessuno andò a contare i Simba uccisi sul costone della collina.

Nella costruzione di mattoni con il tetto in lamiera erano accatastate fino al soffitto centinaia di zanne d’elefante, che i Simba avrebbero ceduto ai trafficanti in cambio di armi e munizioni.

Rastrellando il villaggio, furono trovati nascosti in una capanna una donna vecchissima, con i capelli bianchi come la neve. Tullio non aveva mai visto un’africana di tarda età con i capelli di quel candore.

Insieme a lei, c’era un adolescente con una gamba poliomielitica.

Non erano di sicuro dei Simba combattenti, ma solo dei civili che vivevano con i Simba. Quindi, erano stati lasciati in vita.

Purtroppo un mezzosangue, un meticcio di Città del Capo, di nome Greyling, diceva a voce alta di voleva tagliare la gola col machete ad ambedue.

Forse per darsi delle arie. I mercenari disapprovavano l’intenzione.

“Siamo dei soldati, non dei macellai – mormoravano. Tullio, avvisato da qualcuno del suo gruppo, disse al mezzosangue di non azzardarsi a toccarli. Al che il mezzosangue rispose: “Tu non sei il mio comandante e quindi non ti obbedisco”, rimarcando in tal modo di fare parte della pattuglia dei “Wildcat”, e non delle “Tiger” di Tullio.

Il comandante del mezzosangue si chiamava “Boet” Schoeman, di circa 29 anni, di professione cacciatore di elefanti e bufali, organizzatore di safari di caccia grossa, insieme alla sua famiglia.

Era un ottimo guerrigliero. Aveva combattuto con i “Selous Scouts” rhodesiani contro i guerriglieri dello ZANU di Robert Mugabe.

Spesso andava ad esplorare la zona insieme ai katanghesi, per poi riferire alla pattuglia ove erano i Simba.

“Boet” Schoeman aveva però un difetto, una mania: era di “grilletto facile”…

Nel senso che risolveva le controversie con gli altri estraendo la pistola e facendo fuoco senza discutere… “Boet” aveva ammazzato in Sudafrica due poliziotti in borghese, poiché lo stavano vessando e volevano disarmarlo. Il giudice lo aveva scagionato, poiché all’epoca si aveva il diritto di andare in giro armati con due armi corte, pistola o revolver..

Aveva in seguito ammazzato a sangue freddo qualche Simba e freddato pure due mercenari…
Per questo motivo, quando andava a parlare con lui, Tullio Moneta levava prima la sicura alla Walther P38, cal. 9 mm parabellum, che teneva, sempre pronta, al fianco destro, o sotto l’ascella sinistra, con il colpo in canna.

Come è noto, la P38 è un’ottima pistola tedesca a “doppia azione”.

Ciò significa che quando la cartuccia è in canna e il cane abbassato, si può sparare premendo semplicemente il grilletto. In tal modo si provoca automaticamente l’armamento del cane, che colpirà poi la cartuccia e farà partire il colpo.

Tullio teneva nel serbatoio gli otto colpi prescritti, più uno in canna, pronto all’uso.

“Boet” Schoeman aveva invece una Browning 9 mm Parabellum, che non era dotata della “doppia azione”. Significa che per sparare doveva prima, col pollice, alzare il cane e poi tirare il grilletto.

Tecnicamente, l’arma era inferiore a quella di Tullio. Estraendo contemporaneamente la pistola, Tullio avrebbe sparato per primo. Però, “Boet” era velocissimo ad estrarre e a fare fuoco.

Tullio aveva visto farlo con un gattino che fuggiva dalla cucina con un pezzo di carne in bocca. “Boet” fu un fulmine ad estrarre la Browning e a fare fuoco a ripetizione sul gattino, che saltava di qua e di là per gli schizzi di ghiaia delle pallottole, mancato per due dita.

Il micio si salvò e non si fece vedere per un lungo periodo di tempo, preferendo cacciare i topi, molto abbondanti e carnosi in quelle zone equatoriali, piuttosto che rischiare di incontrare quel pazzo di “Boet” Schoeman… Che aveva pure una mira infallibile: ogni tanto, a richiesta, con un colpi di fucile FN accendeva la capocchia di un fiammifero tenuto in mano da un mercenario a venti metri di distanza… Tullio lo aveva visto fare una ventina di volte.

“Boet” Schoeman e Tullio Moneta si stimavano reciprocamente.

“Boet” chiamava Tullio con il soprannome di “Zorba”. Pure i katanghesi avevano dato a Tullio il soprannome di “Chifambausiku”, che significa “colui che si muove di notte”, oppure “colui che attacca di notte”.

A “Boet” – secondo il parere di Tullio – mancava qualche rotella.

Al punto che riuscivano a stare con lui solo coloro che non avevano una personalità propria e che, all’occorrenza, scimmiottavano il loro comandante.
Tullio ricorda che una volta catturarono in un villaggio Simba un congolese che si era nascosto.

Costui era troppo ben vestito – camicia immacolata e pantaloni perfettamente stirati – per poter essere un Simba qualsiasi. Inoltre, aveva con sé una cartella gonfia di documenti, alcuni dei quali scritti in russo

. La cartella fu confiscata per essere inviata a Leopoldville. Schoeman ordinò al congolese “pesi, pesi”, “cammina, cammina” in swahili.

Quello, invece, si dette alla fuga, ma fu fermato dopo quindici metri, colpito alla nuca, dalla pistolettata infallibile di Schoeman.
Poi, un sergente di Schoeman si avvicinò a sua volta al morto e sparò un’altra pistolettata alla testa, mentre il sangue “gorgogliava” dal foro del primo colpo…

Allo sguardo di disapprovazione di Tullio l’idiota rispose: “Dovevo pulire l’arma”. Voleva farsi bello con il suo comandante sparando pure lui al congolese morto.

In questa occasione, era necessario sparare al fuggitivo?

Quando un Africano, malgrado i piedi piatti – poiché i neri hanno i piedi piatti – si mette a correre nessun bianco potrebbe competere con lui per riacciuffarlo.

Quindi, era necessario sparare per fermarlo. Soprattutto, perché non era un congolese qualsiasi, ma un esponente dei ribelli Simba.

C’era chi, avendo una personalità più definita, non voleva rimanere con Schoeman e faceva a Tullio la richiesta di fare parte del suo plotone.

Tullio rispondeva loro di chiedere il permesso al loro comandante Schoeman. In quattro lasciarono Schoeman dopo che ottennero il permesso. Ricorda solo tre nomi di quei quattro: J. Swart, Swanepoell e Penton Ferreira.
Tullio, prima di accettarli, andò da “Boet”, che gli rispose di prenderseli.

C’era anche un motivo: egli voleva con sé Piero Nebiolo che proveniva dalla Legione Straniera e aveva combattuto nel Vietnam francese e nella battaglia di Dien Bien Phu, dove la Francia perse la sua colonia.

Tullio tergiversava, pure perché Nebiolo – un guerriero esperto e coraggioso – non voleva andare con un “pazzo” sparatore impulsivo, ed anche perché non sapeva parlare e capire la lingua inglese.

Torniamo ora al caso della vecchia e del ragazzo poliomielitico, che il mercenario Greyling voleva sgozzare.

Mentre la donna girava intorno lo sguardo terrorizzato, con gli occhi fuori dalle orbite, il ragazzo implorava in francese: “Il faut pas me tué, il faut pas me tué… Non uccidetemi, non uccidetemi”.
Tullio rispose al ragazzo: “No, nessuno ti ucciderà!”.

Poi, rivolto a Greyling, il mezzosangue, disse: “Come ti permetti di fare queste cose? Che razza di soldato sei? Non ti vergogni? Se ti azzardi a fare loro del male, ti ammazzo con le mie mani”.

Mentre diceva a Greyling queste minacce, anche gli stessi commilitoni esprimevano il loro malumore per la crudeltà di quel mezzosangue sudafricano.

Poi andò dal comandante Schoeman.

Anche in questa occasione, come faceva sempre, Tullio tolse la sicura alla pistola e andò incontro a “Boet” Schoeman.
“Senti, “Boet”, c’è là quel tuo mezzosangue, quel Greyling, che vuole tagliare la gola a quella vecchia e a quel ragazzo poliomielitico”.
Fissando “Boet” negli occhi, gli disse. “Se qualcuno farà del male a quei due, a quella vecchia e all’altro che è poliomielitico, è la volta che mi arrabbio sul serio. E’ chiaro, “Boet”?”
Schoeman si mise a ridere e avvenne il miracolo. “Zorba, non ti preoccupare, nessuno farà del male a quei due. E poi è domenica… Adesso ci penso io – promise.
Boet si avvicino a Greyling e gli intimò: “Non azzardarti a toccare questi due! Okay?”

Greyling non tentò neanche di aprire la bocca.

Tacque e si allontanò a testa bassa.

Sapeva bene che se si fosse azzardato a replicare, pure con lo sguardo, il capitano Schoeman avrebbe estratto fulmineo la pistola e gli avrebbe sparato in bocca. Era una cosa risaputa.
La prima cosa che dicevano ai nuovi arrivati era: “Obbedisci sempre al tenente “Boet” Schoeman e non replicare mai. Ne va della tua vita”…

Intanto, il ragazzo, che tremava e batteva i denti dal terrore, aveva avuto un attacco di diarrea, che gli colava dai calzoncini lungo le gambe… Schoeman ordinò ad un katanghese di caricarsi il ragazzo sulle spalle
e di metterlo al sicuro, insieme alla vecchia in un capanna fuori del villaggio.

Il katanghese non voleva caricarsi sulle spalle il ragazzo per non sporcarsi la schiena, ma uno sguardo di Schoeman gli fece capire di obbedire senza replicare, per non finire ammazzato.

Era pure certo che Schoeman non avrebbe chiesto al tenente Mutambala, che comandava i katanghesi, il permesso di sparare a quel suo soldato katanghese: avrebbe estratto dalla fondina la pistola e fatto fuoco.

Nella jungla i comportamenti sono diversi da quelli delle truppe regolari, burocratiche e rispettose della gerarchia.

Nella giungla, o si è rispettati e temuti, o si rischia la vita con il “fuoco amico” alla prima occasione.

Mentre il katanghese trasportava il ragazzo poliomielitico verso una capanna, la vecchia si appoggiava al braccio di Tullio, dicendogli “pole, pole”, ossia di camminare lentamente.

Tullio sentiva il contatto della mano della vecchia sul suo braccio, provando nel cuore una strana, umana dolcezza…

Schoeman fece portare nella capanna pure dei viveri per la vecchia e per il ragazzo.

Poi, i katanghesi ebbero l’ordine di bruciare il villaggio.

Essi, felici, lo fecero così bene che dopo poco Tullio e i mercenari si trovarono circondati dalle fiamme, rischiando di finire arrosto.

Si salvarono bagnandosi nel ruscello e correndo lungo il suo letto fino ad uscire dal villaggio.

Si accorsero, poi, che pure la capanna in cui erano la vecchia e il ragazzo aveva preso fuoco e i due rischiavano di morire tra le fiamme. “Boet” Schoeman dette ordine di tirarli fuori.

Due katanghesi si bagnarono i vestiti ed entrarono nella capanna in fiamme, traendo fuori la vecchia e il ragazzo, senza neanche una bruciatura.
Li portarono lontano dalla capanna in fiamme e li misero in un luogo sicuro. I viveri erano andati bruciati con la capanna, ma lì c’era un campo di manioca e i due non sarebbero morti di fame.

Il maialino e le zanne d’elefante

In questa vicenda sono da menzionare due episodi degni di essere immortalati in una sequenza da fiction, tanto sono al di fuori del comune attacco guerrigliero.

Il capitano Peter Ross-Smith aveva appena dato l’ordine del fuoco allo schieramento del tenente Tullio Moneta, dove c’erano anche alcuni degli “wildcat” di Schoeman, quando uno di questi, in sella ad una bicicletta arrugginita e con le ruote prive di tubolari, trovata evidentemente un attimo prima nella savana, si gettò a capofitto, pedalando verso il villaggio.
“Fermi, fermi tutti, cessate il fuoco! – gridò Ross-Smith – Ma chi è quel pazzo?”
Qualcuno disse: “Ma… ma quello è Sporos… E’ impazzito!”
Quando il mercenario in sella alla bicicletta fu fuori della linea di tiro, il fuoco ricominciò.
Sporos era un greco sempre taciturno, che aveva cominciato come mercenario nella precedente ribellione del Katanga del 1961, con Ciombè. Sporos conosceva personalmente Ciombè. Tullio aveva avuto occasione di vedere con quale cordialità quel grande politico congolese parlava con Sporos.
Intanto la battaglia era finita, con i Simba morti, o fuggiti. Tutti pensavano che pure Sporos fosse morto…
Mentre scendevano per occupare il villaggio, il greco riapparve, ansante, mentre risaliva la china.

Quando il capitano Ross-Smith lo vide gli gridò: “Ma che cazzo hai fatto?”
Sporos, raggiante, gli rispose: “Pork!…” indicandogli un maialino scuro, che portava sulle spalle, morto.

L’altro fatto fu cosa avvenne con le zanne d’elefante accatastate nella casetta di mattoni. Sarebbe stato un affare ricchissimo se le avessero trasportate a Baraka come preda di guerra. Purtroppo, i camion della spedizione erano distanti parecchie miglia da quel villaggio. Le zanne sarebbero state quindi bruciate con i lanciafiamme.
Piero Nebiolo chiese a Tullio di mettergli alcuni portatori congolesi a disposizione per portarsi via alcune di quelle zanne. Tullio rispose che i portatori servivano per trasportare le munizioni e i viveri, molto più importanti di quelle zanne d’avorio. Allora Nebiolo, prima che venisse bruciato il deposito, prese tre zanne di elefante non molto pesanti e se le caricò sulle spalle.

Dopo qualche centinaio di metri, Nebiolo abbandonò una zanna di elefante, quella più pesante…

Dopo un’altra mezzora di cammino veloce nel sentiero della savana, ne buttò un’altra…

Dopo un altro chilometro Nebiolo abbandonò la terza zanna, la più piccola che gli era rimasta: aveva le lacrime agli occhi…

 

Testimonianza raccolta da Giorgio Rapanelli

 

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

A distanza di vent’anni l’ex mercenario Tullio Moneta racconta dell’incarico ricevuto di rapire l’ex dittatore etiope Mengistu. Testimonianza raccolta da Giorgio Rapanelli.

Nel 1990 Tullio Moneta fu incaricato da una “intelligence” occidentale di rapire l’ex-dittatore rosso dell’Etiopia Mengistu, che si era macchiato di crimini contro l’umanità.

Doveva essere un’”operazione segreta”.

Qualora le cose dovessero andare storte, i paesi non vorrebbero essere coinvolti per motivi politici, negando così ogni coinvolgimento nelle operazioni.
Fuggito dall’Etiopia, Mengistu era stato accolto nello Zimbabwe dal dittatore Mugabe.

Mengistu viveva in uno chalet di proprietà di una cittadina somala sul lago Kariba.

Tullio conosceva bene quella zona turistica, che aveva frequentato con il suo colonnello Mike Hoare, comandante del 5 Commando in Congo nell’azione militare contro i ribelli Simba.

Erano insieme in quella zona per organizzare qualcosa che poi non andò in porto.
Lo chalet si trovava a circa 200 metri dalla riva nord del lago.

Si trattava di rapire Mengistu, caricarlo su di un aereo e riportarlo in Etiopia, dove sarebbe stato processato e condannato a morte… Condanna che sarebbe stata poi tramutata in ergastolo.
Insieme a due mercenari, Tullio Moneta fece un sopralluogo della zona di operazioni.

Scattò delle foto dello chalet, dell’ambiente intorno, dell’intera zona e delle strade, delle due guardie del corpo che guardavano Mengistu e dello stesso Mengistu che passeggiava in abiti civili.

Tullio e i due mercenari si muovevano nella zona camuffati da pescatori, che come altri pescatori si cimentavano nella pesca del “tiger fish”, il “pesce tigre” del lago Kariba, molto difficile da catturare.

La cattura di Mengistu non avrebbe invece presentato problemi per i cinque mercenari che insieme a Moneta avrebbero sopraffatto, addormentato e legato le due guardie del corpo grassocce, probabilmente soldati locali dello Zimbabwe.

Non sarebbe stato necessario eliminare le due guardie del corpo, sparando con le penne stilografiche cal. 22 R.L. di cui erano dotati: un armamento non compromettente, ma micidiale…
Avrebbero facilmente catturato Mengistu, messo nel portabagagli di un’auto e trasportato a cinque chilometri da lì, dove li aspettava su di una pista della savana un Chessna che  sarebbe volato fino ad Addis Abeba con a bordo l’ex dittatore.
Intanto Tullio Moneta e i cinque mercenari sarebbero diventati turisti per alcuni giorni in Botswana, al “Mowame Lodge” sul fiume Chobe, un affluente dello Zambesi, prima di tornare in Sudafrica attraverso la “Caprivi Strip”, punto di contatto con Zimbabwe, Namibia e Botswana.

Tuttavia le cose non si erano rivelate così facili…Innanzitutto non era stato possibile contattare un pilota della squadra di Jack Malloch, che avrebbe dovuto portare Mengistu in Etiopia.

Negli anni Ottanta Malloch, che era stato il pilota coinvolto nel fallito colpo di Stato delle Seychelles, ed era scomparso misteriosamente mentre volava con in suo Spitfire restaurato.

Pure il dottore Hans Germani, medico, scrittore e conoscitore di diverse lingue, amico di Tullio Moneta fin dai tempi del Congo, era stato, secondo dicerie, assassinato dalla polizia dello Zimbabwe.

In più, i sondaggi prevedevano una pesante sconfitta del dittatore Mugabe da parte del democratico Morgan Tsvangirai alle prossime elezioni presidenziali.

L’operazione diventava sempre più difficile da attuare.

Quindi, poco prima che Tullio Moneta potesse realizzare il rapimento di Mengistu, arrivò un messaggio radio che dava l’ordine di “ABORT ACTION”. Ossia, l’operazione rapimento di Mengistu era annullata.

La decisione era stata presa in previsione della vittoria di Tsvangirai, che, una volta diventato presidente, avrebbe fatto deportare Mengistu in Etiopia.
Tullio Moneta e i cinque mercenari trascorsero di conseguenza alcuni giorni al “Mowane Lodge” a spese dei mandanti del rapimento di Mengistu che non riconobbero ai cinque mercenari il compenso d’ingaggio pattuito, in quanto il rapimento non era avvenuto.
Come previsto, Tsvangirai vinse le elezioni, ma Mugabwe non accettò la sconfitta e rimase al potere.

Menghistu nel frattempo continuò a rimanere nello Zimbabwe come suo ospite.

 

“Noi fratelli d’armi in Africa come pirati”: un libro di Ferrario racconta lo spirito dei mercenari

“Noi fratelli d’armi in Africa come pirati”: un libro di Ferrario racconta lo spirito dei mercenari

“Noi fratelli d’armi in Africa come pirati”: un libro di Ferrario racconta lo spirito dei mercenari

di Matteo Brunetti, Secolo d’Italia, 20 dicembre 2020

È dal 2009 che Ippolito Edmondo Ferrario, scrittore milanese nato nel ’76, dedica parte delle sue ricerche e della sua creatività alla ricostruzione dell’epopea dei volontari italiani che hanno combattuto in Africa negli anni Sessanta. Giovani, non conformisti, coraggiosi: in molti lasciarono la famiglia, gli affetti e il benessere degli anni del boom per raggiungere il Congo. Erano militari di ventura, professionisti della guerra, che seguendo i loro ideali si ritrovarono a combattere in un paese straniero dilaniato al suo interno da un terribile conflitto armato.

Non erano soldati sanguinari

Per la loro condizione di “soldati di ventura” l’opinione pubblica e il conformismo progressista li ha sempre marchiati con l’appellativo di “les affreux”, ovvero gli orrendi, i terribili, e le loro coraggiose e disinteressate azioni, seppur volte a salvaguardare la vita della popolazione civile, passarono in secondo piano rispetto all’ingiusta fama di soldati sanguinari, fascistoidi e senza scrupoli.

La canzone di Pino Caruso al Bagaglino

“Son morto nel Katanga / venivo da Lucera…” cantava, parlandone al positivo, solo Pino Caruso in un disco inciso nel 1968 dal Bagaglino con parole di Pier Francesco Pingitore, il quale nel suo cabaret aveva avuto modo di conoscere qualche ragazzo reduce da quell’esperienza… Conformismo a parte, infatti, quella stagione è stata comunque celebrata nell’immaginario europeo e occidentale. Nei libri, nel cinema e, con la ballata di Pingitore, anche nella musica popolare. A cominciare da Africa addio, il capolavoro cinematografico di Gualtiero Jacopetti che il regista girò – insieme al suo amico e sodale Franco Prosperi – proprio seguendo i mercenari e osservando in presa diretta le loro imprese.

I film che celebrano i mercenari d’Africa

Oppure ai due film che celebrarono al meglio la figura di “quei” ragazzi in Africa: I quattro dell’Oca selvaggia del 1977 e I mastini della guerra del 1980, entrambi trasposizione cinematografica di due bei libri, il primo di Bob Carney, il secondo di Frederick Forsyth, lo scrittore britannico che dedicava il romanzo anche a Pier Giorgio Norbiato, un eroico italiano soprannominato “le fasciste”.

Il libro di Ferrario: Maktub, Congo-Yemen 1965-1969

Appunto, in tutta questa bibliografia, mancava sinora adeguatamente il ruolo svolto dagli italiani, che pure c’erano e non sono stati pochi. Ed ecco con questo ultimo Maktub. Congo-Yemen 1965-1969 (Edizioni Ritter, pp. 107, euro 24,00), Ferrario a quattro mani con Robert Müller, uno dei protagonisti di quell’epopea, manda in libreria un bellissimo libro in grande formato con tutto il racconto fotografico, passo dopo passo, tanto che il risultato è quasi cinematografico.

Le esperienze raccontate nel libro

Müller, classe ’42, figlio di un soldato della Wehrmacht e di madre italiana, nel ’65 parte alla volta del Congo Belga insieme a Girolamo Simonetti. Catapultati in una realtà cruda e spietata, fatta di massacri tribali, morte e distruzione, diventano presto “fratelli d’armi”, entrando a far parte del leggendario gruppo Paras Cobra. Nel ’68, solo qualche anno dopo, Müller raggiunge il deserto dello Yemen per combattere a fianco dei ribelli realisti sostenuti dall’Arabia Saudita contro i repubblicani filo-sovietici. Il libro curato con Ferrario rievoca e racconta entrambe le esperienze.

Centinaia di foto

Non mancano tra le centinaia di foto, quelle più goliardiche e giovanilistiche. In particolare, c’è n’è una in cui Simonetti e Müller “giocano” a fare i pirati. Commentata da parole dello stesso Simonetti, l’amico romano – forse proprio colui che parlandone al Bagaglino ispirò Pingitore – che era partito con l’Africa insieme a Müller: “Fra tutti i paragoni fatti, quello che mi sento d’accettare come più vicino allo spirito mercenario è quello con i pirati. Pirati all’arrembaggio in un mare ostile di incomprensioni, che necessita della loro presenza, ma li disprezza, in un mare di opportunismi, di accordi al vertice, di materialismo d’ogni colore, di specioso e interessato perbenismo. Pirati del XX secolo, che difendono la loro filibusta con la sciabola in una mano, mentre con l’altra ghermiscono una bottiglia di Rhum e combattono irridendo al nemico, incuranti di tutto e di tutti”.

Accadde Domani. 24 novembre 1964. Inizia l’operazione Dragon Rouge per liberare Stanleyville

Accadde Domani. 24 novembre 1964. Inizia l’operazione Dragon Rouge per liberare Stanleyville

24 novembre 1964. Inizia l’operazione Dragon Rouge per liberare Stanleyville

L’episodio più significativo legato al loro modus operandi (dei Simba)  rimane la presa della città di Stanleyville avvenuta nel settembre del 1964 quando i Simba, dopo aver messo in fuga le truppe dell’ANC, mantennero la città sotto il loro controllo per intere settimane proclamando la Repubblica Popolare del Congo guidata dal presidente Christophe Gbenye. Gli europei presenti a Stanleyville divennero ostaggi. Sotto il comando del sanguinario generale Nicholas Olenga i Simba si diedero ad ogni forma di violenza: stupri, ruberie, sevizie, omicidi. Il monumento presente a Stanleyville e dedicato alla figura del “martire” Lumumba divenne il teatro di uccisioni di massa: qui vennero condotti più di un centinaio di congolesi appartenenti al ceto medio, impiegati, intellettuali, politici, amministratori locali. Tutti vennero fucilati o fatti a pezzi, alcuni mangiati come Sylvestere Bondekwe, responsabile di un movimento politico moderato a cui fu strappato il fegato ancora vivo per essere poi mangiato dai presenti. Stessa sorte toccò al borgomastro Léopold Matabo che venne fatto a pezzi; mentre era ancora vivo e agonizzante le sue carni furono in parte mangiate e in parte destinate al macello. Morì per decapitazione. L’abate Etienne e il segretario provinciale Gabrielle Belette furono scorticati vivi e alcuni dei presenti orinarono addosso ai due oltre a mangiarne la pelle. Scene così si ripeterono per giorni.
La liberazione della città sarebbe giunta solo con l’intervento dei paracadutisti belgi il 24 novembre del 1964 che con l’operazione “Dragon Rouge” posero fine all’incubo per gli europei tenuti in ostaggio. Durante l’arrivo dei parà furono comunque massacrati alcune decine di ostaggi.
Per questa incapacità da parte dell’ANC di ripristinare l’ordine e debellare la piaga dei Simba fu dato il via da parte del governo congolese dell’arruolamento di volontari europei, i soli in grado di contrastare tale minaccia.

Tratto da: Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Maktub. Congo Yemen 1965 1969, Ritter Edizioni.