5 settembre 1974. Cesare Ferri si consegna per entrare in carcere.
La fine di agosto si avvicina. Mentre è al mare apprende da un quotidiano di essere ricercato. L’articolo è inequivocabile. I giudici lo vogliono arrestare perché lo ritengono autore dell’attentato firmato dalle Sam alla sede del Psi di via Crescenzago, attentato nel quale lui non c’entra. Naturalmente il profilo di Cesare Ferri che compare sul giornale non è dei migliori. Inevitabilmente pensa a quello che hanno già scritto di Giancarlo,
e capisce d’essere l’uomo perfetto da accusare soprattutto da morto. Sceglie quindi di tornare a Milano e si prepara a costituirsi per difendersi.
«Decisi di tornare principalmente per l’accusa infamante di essere uno stragista. Non potevo tollerare che me la cucissero addosso. Oltre al fatto che ero certo che si stesse cercando di farmi fare la fine di Giancarlo».
Ferri si incontra con il suo legale e poi con i camerati. Sente che è il momento dei saluti, il carcere lo attende. È il 5 settembre del 1974 quando fa il suo ingresso a San Vittore. Inizia così un lungo iter giudiziario diviso su più fronti processuali.
«Quando si celebrò il processo contro Loi e Murelli anch’io fui presente insieme ad altri camerati. Ero dentro per l’attentato in via Crescenzago alla sede del Partito Socialista Italiano. Il giorno della lettura della sentenza pronunciata dalla Corte di Assise ero in aula ad assistere in quanto coimputato per resistenza a pubblico ufficiale e adunata sediziosa. Eravamo tutti insieme. Fu lì che accogliemmo la lettura della condanna con il Sieg Heil gridato in aula e accompagnato dal saluto nazionalsocialista. Un gesto che rimase impresso nella memoria di molti. Nei giorni del processo si verificarono diversi episodi, tra cui il mio alterco con Rea che allora dirigeva l’Ufficio Po litico della Questura. Lo sfidai a duello e lui sbiancò…Ma andiamo avanti… Mentre ero detenuto per le Sam, mi arrivò l’indizio di reato per tutti gli attentati compiuti in Alta Italia dal 1969 al 1974, come ho scritto in ‘San Babila la nostra trincea’. Poi mi spiccarono il mandato di cattura per il Mar di Carlo Fumagalli e per Ordine Nero. Fui condannato per l’attentato di via Crescenzago a due anni e due mesi. Successivamente fui indiziato come esecutore della strage di Brescia. Per quest’ultima venni sottoposto a interrogatori che duravano
una media di dieci ore. Si svolgevano in presenza in genere di due o tre pubblici ministeri, un giudice istruttore e sei o sette avvocati di parte civile. Al termine del primo interrogatorio a Brescia ricordo che tornai
in cella e senza neppure svestirmi, mi sdraiai così com’ero e mi addormentai esausto. Era solo l’inizio del mio periodo di detenzione che sarebbe durato fino al 1978.
Tratto da: Susanna Dolci, Ippolito Edmondo Ferrario, Cesare Ferri. Genesi di un ribelle, Edizioni Settimo Sigillo
23 luglio 1977. Giancarlo Rognoni viene estradato dalla Spagna all’Italia.
Mi tradussero da Madrid a Genova. Viaggiai su un volo Alitalia scortato da carabinieri. I passeggeri presenti apparivano visibilmente preoccupati dalla mia presenza e dal dispiego di forze che mi accompagnava. All’aeroporto le forze dell’ordine erano presenti in massa per prendermi in consegna. Ricordo che nella foga ad un poliziotto cadde anche il caricatore di un M12 mentre mi scortavano.
Fui portato al carcere di Marassi dove venni messo momentaneamente, in una sorta di continuità con il periodo madrileno, in una cella sotterranea in disuso. Dopo mezz’ora che ero lì vennero per trasferirmi nella cella definitiva, ma la serratura si era bloccata. Sembrava una barzelletta… Riuscirono ad aprirla, con fatica, e da quel momento iniziò ufficialmente il mio percorso carcerario in Italia.
Così viene descritto dal Corriere della Sera l’arrivo di Rognoni in Italia: Il neofascista milanese Giancarlo Rognoni, l’ideologo e fondatore del gruppo eversivo “La Fenice”, arrestato nel febbraio di quest’anno in Spagna ed estradato ieri in Italia, è giunto all’aeroporto del capoluogo ligure verso le 19, sempre di ieri sera, con un aereo proveniente da Roma. È stato subito condotto nelle carceri di Marassi, dove attenderà il processo d’appello per il fallito attentato al treno Roma-Torino, che inizierà a Genova il 16 ottobre. Giancarlo Rognoni era giunto nel pomeriggio a Fiumicino a bordo di un volo di linea proveniente da Madrid. Era accompagnato da due funzionari dell’Interpol, che lo avevano preso in consegna alla partenza dalla capitale spagnola. Era apparso contrariato dalla presenza dei fotografi e non aveva voluto rilasciare dichiarazioni (…)»: Rognoni estradato da Madrid rinchiuso ieri a Marassi, “Corriere della Sera”, 23 luglio 1977.
Tratto da: Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Unatestimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni
30 giugno 2001. Condanna all’ergastolo della corte d’Assise di Milano inflitta a Giancarlo Rognoni per la strage di piazza Fontana
Il primo grado si concluse per me con la condanna all’ergastolo.
Il giorno che appresi della sentenza vissi un profondo senso di smarrimento. Provai la tentazione di arrendermi, di non riconoscere la giustizia che mi stava giudicando e addirittura di non fare ricorso. Non mi aspettavo di essere condannato all’ergastolo di fronte ad accuse totalmente inconsistenti.
La prospettiva di rimettere in gioco completamente la mia vita con un mio ritorno in carcere era cosa concreta. Se una parte di me avrebbe voluto arrendersi, l’altra reagì.
Proseguii nel dimostrare la mia innocenza. Non mollai grazie alla mia famiglia, all’insistenza di mia moglie Franca e dei miei avvocati. Così, con rinnovato vigore, affrontammo il secondo grado del processo, sforzandoci di smontare, dopo averle analizzate, tutte le varie tesi accusatorie. Fu un lavoro enorme, intenso che richiese uno sforzo notevole. Trascorsi settimane facendo ricerche, acquisendo articoli e documenti nelle biblioteche, al fine di documentare meglio le date e l’inquadramento cronologico di molti fatti attinenti al processo. Tusa mi aiutò in questo compito, mentre a difendermi ebbi anche l’avvocato Enzo Fragalà che si concentrò sugli aspetti più politici della vicenda, ma non solo. I tempi della giustizia furono lunghi, ma alla fine fummo in grado di dimostrare la mia totale estraneità ai fatti.
Tratto da: Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni.
La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese
Un libro di Giancarlo Rognoni e Ippolito Edmondo Ferrario, Ritter Edizioni
“In quegli anni la militanza ci imponeva di misurarci quotidianamente con
situazioni di violenza fisica, perché la violenza era all’ordine del giorno. Lo
scontro fisico, lieve o pesante che fosse, era la normalità per chi faceva politica.
Rappresentando una minoranza, noi neofascisti avevamo la vita non facile.
Più volte durante le manifestazioni partecipammo ad aspri scontri, ma i problemi
non si limitavano a queste situazioni. Si diventava dei possibili bersagli
dal momento in cui si usciva di casa fino a quando non si rientrava.
Fu quindi necessario attrezzarci per sopravvivere. È un dato evidente che
la cosiddetta “caccia al fascista” era una pratica abitualmente perpetrata a cominciare
dalle scuole e nelle strade. Di conseguenza ci organizzammo per
rispondere a questa violenza con altrettanta violenza”.
Il 30 maggio a Pian del Rascino, in provincia di Rieti, viene ucciso Giancarlo Esposti in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Con lui vengono arrestati Alessandro D’Intino, Salvatore Umberto Vivirito (arrestato un giorno dopo in quanto non presente durante il conflitto a fuoco) e Alessandro Danieletti. La dinamica degli investigatori è la seguente: giunti i carabinieri e le guardie forestali sul posto, dove da qualche giorno sono accampati i neofascisti, i primi ingaggiano un conflitto a fuoco in cui Esposti muore. Gli altri camerati vengono arrestati. A centinaia di chilometri di distanza Cesare apprende della morte dell’amico che ormai non vedeva né sentiva da mesi. È sconvolto e con lui gli altri che hanno conosciuto Giancarlo. Un senso di desolazione e di rabbia serpeggia tra i ragazzi della piazza milanese. La sera dopo Cesare andrà a casa di Giancarlo per portare le proprie condoglianze alla famiglia. E mentre ancora si piange la morte di Giancarlo, sulla scena si insinua qualcosa di inquietante che è la prova della presenza di apparati dello stato che operano con precisi scopi. Da Brescia i giudici avevano divulgato tempo prima l’identikit di quello che sarebbe dovuto essere l’attentatore di piazza della Loggia: Giancarlo Esposti. I magistrati bresciani mettono in relazione i fatti di pian del Rascino con la strage di Brescia. Il gruppo di Esposti sarebbe il responsabile della strage, l’esplosivo trovato sulle alture di Rieti lo stesso utilizzato in piazza della Loggia. Peccato che ci sia un dettaglio fondamentale che smonta il teorema: quando Giancarlo viene ucciso porta una barba folta che si è fatto crescere da parecchio tempo, mentre il Giancarlo dell’identikit di Brescia è senza un filo di barba. Si è cercato quindi di “confezionare” a tavolino il colpevole della strage. Cesare vuole partecipare ai funerali dell’amico, ma non potrà farlo. Dalla perquisizione del cadavere di Esposti in una delle tasche viene rinvenuta una fototessera di Cesare che lo ritrae, sul retro della quale è riportato il suo nome e cognome. Un elemento che serve alle indagini per poter mettere in relazione il defunto Esposti con Ferri. Dopo l’ennesima perquisizione in casa sua, Cesare viene tradotto nel carcere di Brescia.
Tratto da: Susanna Dolci, Ippolito Edmondo Ferrario, Cesare Ferri. Genesi di unribelle, Edizioni Settimo Sigillo