Un’inedita testimonianza di Tullio Moneta. Storia di un blitz organizzato per liberare suore e religiosi

Un’inedita testimonianza di Tullio Moneta. Storia di un blitz organizzato per liberare suore e religiosi

Un’inedita testimonianza di Tullio Moneta. Storia di un blitz organizzato per liberare suore e religiosi

Pubblico la testimonianza di Tullio Moneta, raccolta da Giorgio Rapanelli, circa uno dei blitz ai quali lo stesso mercenario italiano prese parte quando era in Congo per liberare un gruppo di suore e di religiosi tenuti in ostaggio dai Simba.

La preparazione del blitz

Il colonnello Peters convocò gli ufficiali nella sala mensa, dove si tenevano le riunioni strategiche militari.

Il lungo tavolo era cosparso di carte topografiche, che il colonnello stava studiando con alcuni scout.

Quando gli ufficiali furono tutti presenti il colonnello esordì: “Salvo le pattuglie oggi operanti, mi rivolgo solo a chi è in libertà”. Dopo una pausa continuò: “I nostri informatori congolesi mi dicono che alcune suore belghe sono tenute in ostaggio dai Simba in un villaggio a nord ovest di Fizi, a circa trenta chilometri da Fizi.

Adesso, pur non essendo un obiettivo militare, ci sentiamo in dovere di liberarle. Mi occorre un ufficiale volontario e dei volontari…”

Da tempo si sapeva che alcune suore dell’ordine religioso di suor Annunziata, quelle che non erano riuscite a fuggire, erano state prese prigioniere dai Simba unicamente perché erano infermiere.

Le altre erano state uccise. Però, nessuno sapeva dove queste suore fossero tenute in ostaggio.

Adesso gli informatori congolesi assicuravano che quattro suore erano ancora in vita, insieme ad un fratello missionario nero, in un villaggio che era stato finalmente individuato sulla carta topografica.

Poiché non erano obiettivi militari, i soldati non erano obbligati a partecipare.

Solo chi partecipava a combattimenti di tipo militare aveva diritto alla diaria e all’assicurazione in caso di morte o di ferimento.

Quindi, nessuna diaria e copertura per i volontari.

Il colonnello Peters continuò: “Come ben sapete, i volontari che parteciperanno all’azione lo faranno gratuitamente e a loro rischio e pericolo…È chiaro?”. Tutti gli ufficiali rimasero presenti, in silenzio.

“Bene – continuò il colonnello – poiché si tratta di suore cattoliche rivolgo l’invito agli ufficiali e ai soldati cattolici. Poiché, nel 5 Commando esiste un solo ufficiale cattolico, il tenente Tullio Moneta, lo invito, senza costrizione, ad organizzare una pattuglia di soldati cattolici per liberare le suore. È chiaro, tenente Moneta?”

“Io non sono un credente cattolico – replicò il tenente Tullio Moneta.

“Sì, ma sei un Italiano e quindi sei cattolico – replicò Peters, con un ironico sorriso… Al quale Moneta rispose con un altrettanto ironico sorriso.

Dopo che Peters mise in libertà gli ufficiali, furono sguinzagliati i sergenti per trovare i volontari cattolici.

In breve tempo ne trovarono una trentina da diverse pattuglie e non tutti cattolici, ma pure protestanti e non credenti.

Tullio ne scelse dieci tra quelli delle varie pattuglie, i migliori come combattenti e fisicamente in ottima forma, facendo firmare loro una dichiarazione che in quell’azione erano in veste di “volontari”.

Ossia, in caso di morte o ferimento non avrebbero avuto compensi finanziari come da contratto, in quanto un’azione umanitaria non era vista come azione militare. Pure i tre mercenari italiani che erano nella pattuglia di Tullio Moneta – Piero Nebiolo, Eugenio Ciccocelli e Perissinotto – fecero parte del commando dei volontari.

Non era la prima volta che Tullio aveva liberato religiosi e civili.

Era capitato altre volte che dopo una sconfitta militare, i Simba scappassero, lasciando vivi gli ostaggi imprigionati. Ma questa sarebbe stata un’azione di guerriglia umanitaria.

Si sarebbe trattato però sempre di un attacco militare, sapendo pure dove si trovassero gli ostaggi, lasciandoli incolumi.

Come faceva sempre prima di partire per un’azione, Tullio controllava lo stato di salute degli uomini della pattuglia. Dovevano essere in perfetta forma mentale, e senza problemi fisici al corpo, alle gambe e ai piedi.

Andare in pattuglia con problemi soprattutto ai piedi feriti significava creare problemi agli altri mercenari e a non poter ritornare. Piedi e gambe in forma eccellente significava la salvezza, a parte le pallottole.

Usciti dalla sicurezza della base trincerata di Baraka, i mercenari sarebbero stati soli in un territorio ostile, sia per i nemici Simba, sia per i pericoli in agguato nelle foreste e nelle savane congolesi.

Era sempre possibile pestare un serpente Mamba… Sapevano che dovevano contare solo sul loro comandante e su ogni commilitone, oltre agli scout, senza i quali un mercenario bianco si sarebbe perso in quell’ambiente equatoriale.

Tullio controllò pure il funzionamento delle armi, se il numero dei caricatori fosse sofficiente, insieme all’attrezzatura sanitaria del “medic”, ossia del mercenario che, oltre che combattente, aveva le funzioni di primo intervento sanitario in caso di ferimento.  Infine, studiò ancora le carte topografiche con gli esperti.

Avrebbe avuto la copertura aerea di un cacciabombardiere T28, come osservatore dall’aria delle mosse dei Simba e in continuo contatto radio con la pattuglia. La pattuglia avrebbe avuto solo un armamento leggero, perché l’azione di guerriglia sarebbe stata quella del tipo “mordi e fuggi”.

Si sarebbe trattato un attacco improvviso e di una ritirata veloce per rientrare alla base, portando con sé gli ostaggi liberati. Ma non si conosceva la effettiva situazione.

Gli informatori congolesi parlavano di un villaggio stabile con circa un’ottantina di Simba, più qualche donna.

Quindi i mercenari avrebbero dovuto compiere con gli scout una osservazione dell’obiettivo, dove erano tenuti rinchiusi i cinque ostaggi e poi sferrare un attacco.

Ma sarebbero dovuti prima giungere sull’obiettivo, osservare la situazione, decidere e poi agire…

La pattuglia partì da Baraka con un solo camion, scortata dall’autoblindo Ferret di “Skinny” Coleman, più due serventi del mezzo.

Giunti alla base delle colline a nord ovest di Fizi gli uomini scesero dal camion, che fu mimetizzato, mentre Coleman metteva in posizione la mitragliatrice del Ferret sul sentiero da cui sarebbero poi ritornati i mercenari dopo l’azione, per respingere eventuali inseguitori Simba.

Il drappello dei volontari si incamminò verso quel villaggio Simba individuato sulla carta topografica.

Precedevano il drappello gli scout katanghesi che il tenente Mutambala forniva costantemente al 5 Commando, più un altro paio di mercenari esperti nel seguire le tracce.

Il drappello camminava veloce, senza parlare. Nelle fitte erbe della savana solo i piedi sentivano il sentiero.

Nelle foreste che attraversavano il caldo era afoso. Ma era ciò che incontravano sempre durante la stagione secca.

Mentre attraversavano una savana videro giungere di corsa uno scout che riferì al tenente Moneta che i mercenari e gli scout mandati in avanscoperta avevano intercettato le quattro suore bianche e i fratello missionario nero mentre lavavano i panni in un ruscello, guardate da cinque Simba armati, a circa quattrocento metri da lì, nella foresta… I mercenari e gli scout si erano acquattati, tenendo sotto tiro i Simba, che stavano chiacchierando tra di loro, con i kalashnikov buttati da una parte, lontani da loro.

Evidentemente, non si aspettavano un attacco.

Né pensavano ad una ribellione da parte delle religiose e del missionario nero.

In prossimità del ruscello dove erano le suore e i Simba, Tullio fece muovere i suoi uomini a semicerchio, spedendo contemporaneamente uno scout e un mercenario sul sentiero verso l’accampamento Simba, che era a circa cinquecento metri da lì.

Quando i mercenari uscirono allo scoperto con le armi spianate, lo stupore si dipinse sul volto dei Simba, delle religiose e del fratello missionario nero. La sorpresa aveva paralizzato i Simba che furono ammucchiati da una parte, sotto tiro delle armi, mentre alcuni mercenari prelevavano i kalashnikov.

Le suore erano macilente, provate, seminude.

Non erano una bella visione… Erano state violentate dai Simba.

Due di esse erano incinte; e si vedeva dal ventre gonfio.

Mentre i mercenari cercavano qualche camicia per ricoprire le nudità delle suore, la radio gracchiò: “Attenzione, attenzione, da Aquila Bianca a Tiger… I Simba del villaggio stanno velocemente venendo verso di voi. Aquila Bianca cercherà di impegnarli e di bloccarli per un quarto d’ora. È il tempo che noi possiamo avere per rimanere in zona prima di rientrare”.

Infatti, era quella l’autonomia che avevano in zona di combattimento gli aerei che partivano dalla base di Albertville, a sud del lago Tanganika.

Tullio dette ordine di rimettersi in marcia velocemente. “Sorelle – disse alle suore – sono spiacente, ma dobbiamo andare via di corsa, perché stanno arrivando i Simba”.

Non potendo portarsi dietro prigionieri, diede l’ordine a Piero Nebiolo di risolvere la cosa. I Simba sapevano di dover morire, ma erano impassibili. Era come se la morte non li riguardasse. Tullio osservava le suore, mentre risuonavano i cinque colpi di pistola di Nebiolo. I volti delle sorelle erano a loro volta impassibili.

Solo ad una suora un lampo di gioia velò gli occhi.

Evidentemente, dopo ciò che avevano subito dai Simba, l’idea della fratellanza tra gli uomini di tutte le razze era stata riconsiderata.

“Adesso dobbiamo andare veloci – disse Tullio ai liberati – Il T28 per un po’ fermerà i Simba, che resteranno immobili nelle erbe della savana per non essere mitragliati”.

Le suore e il missionario nero camminavano veloci come i mercenari, in silenzio.

Tullio aveva lasciato una piccola retroguardia per impegnare eventualmente i Simba in un combattimento di copertura.

Quando giunsero al camion e al Ferret dopo una marcia spossante le suore e il missionario nero si liberarono del peso dell’angoscia con cui avevano convissuto per mesi.

Si misero ad abbracciare i mercenari, a ridere e a piangere contemporaneamente.

Poi vennero portate con il camion a Fizi e lasciate in quella base del 5 Commando.

Sarebbero state riportate nei giorni successivi ad Albertville dalla loro madre superiora, suor Annunziata.

Quando alcuni giorni dopo venne fatta una spedizione armata più consistente per distruggere definitivamente quel villaggio Simba, i mercenari trovarono una radura vuota, senza più le capanne.

Evidentemente temevano un successivo attacco mercenario e quindi smantellarono le capanne, portandosi via i pali da riutilizzare per un nuovo villaggio da qualche altra parte.

 

 

“Noi fratelli d’armi in Africa come pirati”: un libro di Ferrario racconta lo spirito dei mercenari

“Noi fratelli d’armi in Africa come pirati”: un libro di Ferrario racconta lo spirito dei mercenari

“Noi fratelli d’armi in Africa come pirati”: un libro di Ferrario racconta lo spirito dei mercenari

di Matteo Brunetti, Secolo d’Italia, 20 dicembre 2020

È dal 2009 che Ippolito Edmondo Ferrario, scrittore milanese nato nel ’76, dedica parte delle sue ricerche e della sua creatività alla ricostruzione dell’epopea dei volontari italiani che hanno combattuto in Africa negli anni Sessanta. Giovani, non conformisti, coraggiosi: in molti lasciarono la famiglia, gli affetti e il benessere degli anni del boom per raggiungere il Congo. Erano militari di ventura, professionisti della guerra, che seguendo i loro ideali si ritrovarono a combattere in un paese straniero dilaniato al suo interno da un terribile conflitto armato.

Non erano soldati sanguinari

Per la loro condizione di “soldati di ventura” l’opinione pubblica e il conformismo progressista li ha sempre marchiati con l’appellativo di “les affreux”, ovvero gli orrendi, i terribili, e le loro coraggiose e disinteressate azioni, seppur volte a salvaguardare la vita della popolazione civile, passarono in secondo piano rispetto all’ingiusta fama di soldati sanguinari, fascistoidi e senza scrupoli.

La canzone di Pino Caruso al Bagaglino

“Son morto nel Katanga / venivo da Lucera…” cantava, parlandone al positivo, solo Pino Caruso in un disco inciso nel 1968 dal Bagaglino con parole di Pier Francesco Pingitore, il quale nel suo cabaret aveva avuto modo di conoscere qualche ragazzo reduce da quell’esperienza… Conformismo a parte, infatti, quella stagione è stata comunque celebrata nell’immaginario europeo e occidentale. Nei libri, nel cinema e, con la ballata di Pingitore, anche nella musica popolare. A cominciare da Africa addio, il capolavoro cinematografico di Gualtiero Jacopetti che il regista girò – insieme al suo amico e sodale Franco Prosperi – proprio seguendo i mercenari e osservando in presa diretta le loro imprese.

I film che celebrano i mercenari d’Africa

Oppure ai due film che celebrarono al meglio la figura di “quei” ragazzi in Africa: I quattro dell’Oca selvaggia del 1977 e I mastini della guerra del 1980, entrambi trasposizione cinematografica di due bei libri, il primo di Bob Carney, il secondo di Frederick Forsyth, lo scrittore britannico che dedicava il romanzo anche a Pier Giorgio Norbiato, un eroico italiano soprannominato “le fasciste”.

Il libro di Ferrario: Maktub, Congo-Yemen 1965-1969

Appunto, in tutta questa bibliografia, mancava sinora adeguatamente il ruolo svolto dagli italiani, che pure c’erano e non sono stati pochi. Ed ecco con questo ultimo Maktub. Congo-Yemen 1965-1969 (Edizioni Ritter, pp. 107, euro 24,00), Ferrario a quattro mani con Robert Müller, uno dei protagonisti di quell’epopea, manda in libreria un bellissimo libro in grande formato con tutto il racconto fotografico, passo dopo passo, tanto che il risultato è quasi cinematografico.

Le esperienze raccontate nel libro

Müller, classe ’42, figlio di un soldato della Wehrmacht e di madre italiana, nel ’65 parte alla volta del Congo Belga insieme a Girolamo Simonetti. Catapultati in una realtà cruda e spietata, fatta di massacri tribali, morte e distruzione, diventano presto “fratelli d’armi”, entrando a far parte del leggendario gruppo Paras Cobra. Nel ’68, solo qualche anno dopo, Müller raggiunge il deserto dello Yemen per combattere a fianco dei ribelli realisti sostenuti dall’Arabia Saudita contro i repubblicani filo-sovietici. Il libro curato con Ferrario rievoca e racconta entrambe le esperienze.

Centinaia di foto

Non mancano tra le centinaia di foto, quelle più goliardiche e giovanilistiche. In particolare, c’è n’è una in cui Simonetti e Müller “giocano” a fare i pirati. Commentata da parole dello stesso Simonetti, l’amico romano – forse proprio colui che parlandone al Bagaglino ispirò Pingitore – che era partito con l’Africa insieme a Müller: “Fra tutti i paragoni fatti, quello che mi sento d’accettare come più vicino allo spirito mercenario è quello con i pirati. Pirati all’arrembaggio in un mare ostile di incomprensioni, che necessita della loro presenza, ma li disprezza, in un mare di opportunismi, di accordi al vertice, di materialismo d’ogni colore, di specioso e interessato perbenismo. Pirati del XX secolo, che difendono la loro filibusta con la sciabola in una mano, mentre con l’altra ghermiscono una bottiglia di Rhum e combattono irridendo al nemico, incuranti di tutto e di tutti”.

Accadde Domani. 24 novembre 1964. Inizia l’operazione Dragon Rouge per liberare Stanleyville

Accadde Domani. 24 novembre 1964. Inizia l’operazione Dragon Rouge per liberare Stanleyville

24 novembre 1964. Inizia l’operazione Dragon Rouge per liberare Stanleyville

L’episodio più significativo legato al loro modus operandi (dei Simba)  rimane la presa della città di Stanleyville avvenuta nel settembre del 1964 quando i Simba, dopo aver messo in fuga le truppe dell’ANC, mantennero la città sotto il loro controllo per intere settimane proclamando la Repubblica Popolare del Congo guidata dal presidente Christophe Gbenye. Gli europei presenti a Stanleyville divennero ostaggi. Sotto il comando del sanguinario generale Nicholas Olenga i Simba si diedero ad ogni forma di violenza: stupri, ruberie, sevizie, omicidi. Il monumento presente a Stanleyville e dedicato alla figura del “martire” Lumumba divenne il teatro di uccisioni di massa: qui vennero condotti più di un centinaio di congolesi appartenenti al ceto medio, impiegati, intellettuali, politici, amministratori locali. Tutti vennero fucilati o fatti a pezzi, alcuni mangiati come Sylvestere Bondekwe, responsabile di un movimento politico moderato a cui fu strappato il fegato ancora vivo per essere poi mangiato dai presenti. Stessa sorte toccò al borgomastro Léopold Matabo che venne fatto a pezzi; mentre era ancora vivo e agonizzante le sue carni furono in parte mangiate e in parte destinate al macello. Morì per decapitazione. L’abate Etienne e il segretario provinciale Gabrielle Belette furono scorticati vivi e alcuni dei presenti orinarono addosso ai due oltre a mangiarne la pelle. Scene così si ripeterono per giorni.
La liberazione della città sarebbe giunta solo con l’intervento dei paracadutisti belgi il 24 novembre del 1964 che con l’operazione “Dragon Rouge” posero fine all’incubo per gli europei tenuti in ostaggio. Durante l’arrivo dei parà furono comunque massacrati alcune decine di ostaggi.
Per questa incapacità da parte dell’ANC di ripristinare l’ordine e debellare la piaga dei Simba fu dato il via da parte del governo congolese dell’arruolamento di volontari europei, i soli in grado di contrastare tale minaccia.

Tratto da: Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Maktub. Congo Yemen 1965 1969, Ritter Edizioni.

 

 

Italo Zambon. Il paracadutista della Folgore morto durante l’assedio di Bukavu nel 1967

Italo Zambon. Il paracadutista della Folgore morto durante l’assedio di Bukavu nel 1967

Italo Zambon è stato uno dei volontari italiani più conosciuti e apprezzati. Veneziano, già parà della Folgore, operò prima nella zona di Paulis e successivamente, alla fine del marzo 1965, insieme al volontario Jean-Claude Laponterique (proveniente dal 11e Régiment Parachutiste de Choc di stanza a Calvi) fu aggregato al 1er CHOC guidato da Bob Denard; qui venne inserito nel gruppo comandato da Roger Bruni e denominato Charly One. L’altro solo italiano presente era Carlo Chiesa, proveniente dai ranghi della Legione Straniera. Zambon si guadagnò il soprannome di “orecchiofino” per la sua capacità in pattuglia di percepire i movimenti dei ribelli ed evitare di cadere nelle loro imboscate. Prima di giungere in Congo aveva viaggiato moltissimo, spesso con mezzi di fortuna, raggiungendo il Nord Africa e attraversando il deserto con le carovane. Zambon troverà la morte durante le ultime fasi dell’assedio della città di Bukavu il 29 ottobre 1967, durante uno degli attacchi più violenti condotti dalle truppe dell’ANC. Nel suo libro Il battaglione Léopard Jean Schramme ricorda le ultime concitate fasi dell’assedio della città: «Baka non avrebbe potuto essere raggiunta. Al calare della notte la 4a compagnia sarebbe stata obbligata a sganciarsi verso la posizione Venus. Anche il mio commando fu obbligato a indietreggiare e recuperammo le mitragliatrici e il cannone delle jeeps. Al mio fianco, Italo Zambon fu letteralmente tagliato in due da una raffica di mitragliatrice pesante. Era il migliore dei nostri volontari italiani». E ancora il volontario francese Jean-Claude Laponterique lo ricorda con affetto: «In combattimento Italo era una persona di cui ti potevi fidare. Nei momenti liberi era estremamente simpatico e faceva ridere per quel suo strano accento con cui parlava il francese. Era sempre pronto ad aiutare le persone che abbiamo salvato dai ribelli. Quando mi sono congedato e ci siamo ritrovati insieme a Parigi mi ha chiesto se fossi disposto a ritornare in Congo. Io gli dissi di no, per me l’avventura era terminata. Ormai i ribelli erano stati debellati ad eccezione di poche zone residue. Lui partì nuovamente. Tempo dopo venni a sapere della sua fine. Sono certo che è morto in quella terra che amava più di tutto». 

(Foto J.C.L.)

 

Il maresciallo Enzo Varani

Il maresciallo Enzo Varani

Pubblico qui di seguito, con immenso piacere,  il messaggio giuntomi sabato 17 ottobre 2020 dal nipote di Enzo Varani che ha acquistato per caso il libro “Maktub Congo-Yemen 1965/1969”. Le sue parole ripagano Robert ed il sottoscritto di tutto l’impegno speso nella stesura del libro.

 

A volte gli avvenimenti sembrano accadere per caso, ma il caso non è mai causale, ti aspetta o si fa aspettare e prima o poi si presenta e provoca emozioni. Ho visto un post di Ippolito Edmondo Ferrario sulla presentazione di un suo nuovo libro “Maktub”, un insieme di racconti e fotografie di un posto lontano che tra il 1960 e il 1965 ha attraversato una grande instabilità politica con un susseguirsi di rivolte armate, il Congo. L’istinto mi ha portato ad acquistarlo, mia madre lo sfoglia e ad un certo punto si emoziona e urla “Papà” dicendo di averlo riconosciuto dalla posa. Come mio nonno ci sia finito e perché , non sono mai riuscito a farmelo spiegare da nessuno. Mia nonna mi racconta che lo ha fatto per il suo grande spirito avventuriero (Legionario in Indocina, minatore in Belgio, mercenario in Congo e poi chissà dove…). Nemmeno due figlie piccole e un figlio in arrivo riuscirono a desisterlo dalla sete di avventura  e dai soldi “facili” e chissà cos’altro. Cit”…Pirati all’arrembaggio in un mare ostile di incomprensioni, che necessita della loro presenza, ma li disprezza, un mare di opportunismi, di accordi al vertice, di materialismo d’ogni colore, di specioso ed interessato perbenismo. Pirati del XX secolo, che difendono la loro filibusta con la sciabola in una mano, mentre con l’altra ghermiscono una bottiglia di Rhum (o di una Primus in questo caso) e combattono irridendo al nemico, incuranti di tutto e di tutti”. scrisse Nony. Non so se mio nonno si sentisse così, un pirata in cerca del tesoro, ma ho capito che di quel “tesoro” una parte non tornò con lui  mentre con l’altra, appena tornato in Italia,  comprò una casa per la sua famiglia ed aprì un’osteria diventata poi ristorante. In fondo forse era questo il “tesoro” che cercava. Da lì a poco, dopo tanto rumore, purtroppo, se ne andò in una notte, in silenzio, quando anche il cuore decise di starsene in silenzioso giusto il tempo di riuscire a compiere qualche battito in una vita “normale e tranquilla” che forse in fondo non era fatta per lui, ma provando a darla a chi voleva bene. Ciao nonno, salutami zio.

In ricordo del Maresciallo Enzo Varani

Ascoli Piceno 15/02/1930

Ascoli Piceno 5/2/1978

Qui sotto la foto di gruppo che ritrae Varani insieme ai suoi commilitoni.

SUCRAF. Da sinistra a destra: il Maresciallo Varani (marchigiano, dopo il Congo fece fortuna vendendo pappagalli in giro per l’Europa ad appassionati di animali esotici), Girolamo “Nony” Simonetti, l’italo-argentino Ciccodicola (una volta tornato a casa uccise la moglie a martellate), Benigno Murgia (originario di Carbonia, dopo aver lavorato per un periodo in una miniera di carbone in Belgio si era arruolato tra le fila dei volontari in Congo), Robert Müller. Alla SUCRAF i volontari Varani, Ciccodicola e Murgia, comandanti dal maggiore polacco Topor, erano di stanza a protezione dello stabilimento.