Tullio Moneta ci ha lasciati. L’oca selvaggia è volata

Tullio Moneta ci ha lasciati. L’oca selvaggia è volata

 

Giovedì, 31 marzo 2022, Tullio Moneta ci ha lasciato.

Piace ricordare che combatté per due anni i ribelli Simba per conto dell’ONU con il 5 Commando mercenario anglosassone, fino a ricoprire il grado di Maggiore. Come comandante volontario, insieme ad una pattuglia di volontari, quindi non coperti da assicurazione in caso di morte o di ferimento, partecipò alla liberazione di suore, ostaggi dei Simba. Salvò dall’assassinio un ragazzo poliomielitico ed una vecchia congolese, trovati in un villaggio Simba.
Partecipò come vice-comandante del Colonnello Mike Hoare al fallito tentativo di golpe alle Seychelles per riportare nel campo occidentale il governo di quell’isola, che era stato usurpato da un golpe filomarxista.

Tullio Moneta, sotto la “copertura” di attore, ha sempre lavorato per l’”intelligence” occidentale contro quelle dell’Est sovietico, fino alla caduta del Muro di Berlino.

Tornò in Italia per curarsi una ferita alla gamba destra, causata da un attentato alla sua persona. Ha passato i suoi ultimi anni a Macerata, tra un ricovero e l’altro, soffrendo stoicamente fino alla fine, avvenuta nella tarda serata di giovedì 31 marzo nell’ospedale di San Severino Marche.

Tullio Moneta aveva sempre combattuto per la salvaguardia della civiltà occidentale. Aveva in programma di educare alla lotta i giovani su questa strategia, poiché si era accorto che la nostra millenaria civiltà europea era stata tradita. Non si riconosceva, quindi, nella nuova civiltà, imposta da interessi mondiali, che con l’Europa democratica dei popoli europei nulla ha a che vedere. Diceva che alle democrazie popolari sono state imposte “signorie e principati”, non scelte dal popolo. Quindi, pur nel suo piccolo, c’era da fare qualcosa per ristabilire i diritti dei popoli.

Mi chiedeva sempre, non potendolo magari farlo personalmente, di ringraziare per l’aiuto ricevuto in questi ultimi anni i Servizi sociali del Comune di Macerata, le ACLI, l’Ospedale civile di Macerata, la Clinica Marchetti, la Villa dei Pini e l’Istituto Santo Stefano, l’Ospedale Civile di Civitanova Marche, di Treia, di Camerino e di San Severino, dove è deceduto. E la Casa di Riposo di Mogliano, dove aveva vissuto per alcuni mesi. Infine, un saluto affettuoso ai diversi amici che in Italia hanno collaborato con lui, insieme a quelli maceratesi della sua giovinezza e a quelli di recente conoscenza.

31 marzo 2022

Giorgio Rapanelli


Uno scrittore che non ti aspetti. Vis a Vis con Ippolito Edmondo Ferrario

Uno scrittore che non ti aspetti. Vis a Vis con Ippolito Edmondo Ferrario

Uno scrittore che non ti aspetti. Vis a Vis con Ippolito Edmondo Ferrario.

 Di S. Maugeri

 

In una tarda mattina di novembre mi ritrovo a percorrere le vie ancora poco affollate del cosiddetto Quadrilatero della Moda milanese. Ho appuntamento con lo scrittore milanese Ippolito Edmondo Ferrario. Mi accoglie in quello che è il suo luogo “eletto” per scrivere, in cui prendono forma i suoi scritti e nascono i suoi personaggi. L’ambiente mi sorprende per eleganza ed eccentricità, tra opere d’arte, motociclette e attrezzi ginnici.

Lo scrittore milanese, classe 1976, di fronte ad una tazza di caffè nero fatto con la moka, senza zucchero, si concede per una lunga intervista alla sottoscritta.

 Partiamo dal tuo ultimo romanzo pubblicato, “Il banchiere di Milano”, edito dalla Fratelli Frilli Editore. Che cosa puoi dirci della storia e del protagonista, il banchiere Raoul Sforza?

Le migliori parole che tratteggiano Sforza sono contenute in un passo nel libro: La sua aria altera e sprezzante, unita a un’assoluta eleganza nel vestire, non lo facevano passare inosservato. Nella mano destra stringeva un bastone da passeggio, liscio, nero, sormontato da un teschio di avorio fossile finemente scolpito.

Alto e slanciato, aveva una folta chioma di capelli un tempo biondi e ora color cenere. Scendeva i gradini delle scale del tribunale con passo sicuro. I tratti del viso erano regolari, la carnagione tendente al pallido, la fronte alta. In Raoul si coglieva il portamento di un antico condottiero italiano, risoluto, spigoloso e arcigno. Il suo sguardo era ciò che di lui non si dimenticava facilmente: due occhi profondi e scuri come quelli di un lago alpino in una giornata senza sole. Occhi che mettevano in soggezione. Alcuni sostenevano che aveva un’espressione malvagia per natura.

Per quanto concerne la storia che lo vede protagonista, posso dire che si tratta di un intrigo finanziario e politico animato da personaggi verosimili a quelli a cui le cronache di questo paese ci hanno abituato negli anni. Non ho dovuto inventare molto, al contrario di quello che si potrebbe pensare…

Avendo letto, e apprezzato, questo romanzo ho avuto l’impressione che tu abbia un debole per i personaggi non politicamente scorretti. È soltanto una mia impressione o c’è del vero?

Partendo dal principio che la definizione di personaggi politicamente corretti o viceversa scorretti la trovo priva di senso e fuorviante (naturalmente senza offesa), mi piace creare personaggi che possano sorprendere e che siano il più possibile lontani da schemi e preconcetti. L’affezione ad un personaggio da parte del lettore è la cosa cui tengo di più in assoluto. Riuscire a crearla inseguendo percorsi non convenzionali è fonte di soddisfazione.

Comunque, Raoul Sforza rimane un antieroe…

Sì, nella banalità del termine. Io lo considero troppo poliedrico per essere etichettato in qualche modo. La ricerca di un’eventuale morale non mi compete. Anzi direi che Raoul esula dal concetto stesso di una ricerca di una morale condivisa. Anche qui mi sento di proporre poche righe che meglio di altro identificano la natura di Raoul e che lui stesso riporta a sua volta in quanto suggeritegli da un amico: L’unica cosa che conta è l’audacia dello sforzo e non importa se esso sia finalizzato al bene o al male perché tanto tutto decade, si sbriciola. Si sfascia.

Resta il fatto che il libro sta andando molto bene, visto che nel giro di qualche mese la casa editrice ha pubblicato già due ristampe. Ci sarà un seguito?

Sì, in questi giorni ho consegnato all’editore il secondo libro con protagonista il banchiere milanese. Non è propriamente un seguito, ma una storia a sé stante, complementare naturalmente al primo romanzo.

Qualche anticipazione senza spoilerare troppo?

Il titolo sarà I diavoli di Bargagli.

Nient’altro? L’ambientazione? (Ippolito sorride sornione intuendo che sto cercando di farlo parlare più di quello che vorrebbe…)

Come si evince dal titolo la storia è ambientata anche a Bargagli, piccolo paese dell’alta val Bisagno, sulle alture prossime a Genova. Il paese è stato teatro di vicende particolari legate agli ultimi giorni del secondo conflitto mondiale.

Dunque, Sforza lascerà momentaneamente la sua Milano e l’amata Bonassola per Bargagli?

Assolutamente no. Milano è il suo “quartier generale” e Bonassola il luogo del cuore. Chi ha avuto modo di apprezzare queste due ambientazioni non rimarrà deluso anche nel secondo libro.

Torniamo a te in qualità di autore. Mi sbaglio o non sei uno che fa molte presentazioni?

Non sbagli. Devo dire che non le ho mai amate, pur avendone fatte moltissime, specie negli anni addietro. Con il tempo ho compreso che al di là dell’aspetto promozionale, il mio ruolo non è quello di salire in cattedra o di mettermi sotto i riflettori. Credo che “bastino e avanzino”, come si dice, i miei libri. Qualche presentazione la faccio, ma non più in presenza.

Sei per caso timido?

Un tempo lo ero. Adesso direi tutt’altro, ma credo nel pudore. Non ho velleità di protagonismo. In un’epoca in cui tutti cercano, spesso con affanno, visibilità a tutti i costi, io non sento questa necessità. Non a caso rifuggo l’utilizzo di certi strumenti per riversare sugli altri la propria opinione.

Ti riferisci ai social?

Sì. Li considero uno strumento eccezionale per la promozione dei libri. Da tale uso possono derivare anche rapporti che si instaurano nel tempo, specie con i miei lettori e ciò mi fa solo piacere. Utilizzare questi strumenti per far conoscere il proprio punto di vista, spesso affrontando ogni tipo di argomento, è una pratica che evito. Esiste ancora una vita, reale, fatta di amici, di persone fisiche, con le quali confrontarsi.

Però, tornando alle presentazioni, ho visto che le più recenti le hai fatte tramite le piattaforme, ovvero a distanza. Come ti sono sembrate?

Nelle presentazioni a distanza ho trovato molti aspetti positivi, rispetto a quelle tradizionali in presenza. Innanzitutto, è sempre più difficile per molte persone essere presenti ad un evento il dato giorno e ad una data ora e le cause risiedono negli impegni di ciascuno. La presentazione si trasforma il più delle volte in una fantozziana rincorsa a trascinare più persone possibile nel giorno prestabilito, sperando di mettere insieme una platea dignitosa di spettatori. Preferisco lasciare la libertà, a chi interessato ad un libro, di potersi vedere la presentazione tramite i social, magari nelle ore e nei giorni successivi, nel momento che gli è più congeniale.

Ti capita di partecipare alle presentazioni di altri autori?

Non ne ho il tempo, ma nemmeno la voglia. Non andrei nemmeno alle mie, se è per questo. Ripeto, ritengo che i libri che scrivo siano più interessanti del sottoscritto e non lo dico per una questione di falsa modestia o per fare il virtuoso. Preferisco uscire, farmi un giro in moto o vedermi con gli amici che raccontare ciò che il lettore trova già tra le pagine del libro. Senza offesa per nessuno.

La passione per le moto è evidente visto che ne hai addirittura una nel tuo studio. Hai una passione per le Ducati scommetto? (Una rossa bolognese è infatti presente accanto alla sua scrivania).

La moto è sempre stata il mio sogno fin da bambino e rimane ancora oggi un qualcosa di emozionante. Quella che vedi nel mio studio è stato il promo modello di Ducati che ho posseduto, una Super Sport 900, ma devo dire che le moto mi piacciono quasi tutte, stradali, enduro, sportive, custom. Pur usandola poco, non ne posso farne a meno. Oggi prediligo le Harley Davidson per spostarmi. Implicano un approccio motociclistico per il quale il quale la ricerca delle prestazioni in termini di potenza e velocità passa in secondo piano rispetto all’estetica e al piacere di guida. E poi subentra una questione affettiva. Fu mio nonno Edmondo a regalarmi la prima moto, una Ducati appunto. Lui però era un estimare delle Harley. Durante i suoi viaggi negli Stati Uniti mi raccontava di quando le vedeva e ne rimaneva affascinato. Io da ragazzo non le consideravo neppure e ora mi ritrovo a distanza di più di vent’anni a pensare che invece aveva pienamente ragione. Mi spiace solo che non abbia potuto vedermi in sella ad una Harley Davidson…

Torniamo ai libri. Hai affrontato vari argomenti. Dalla Milano sotterranea, ai mercenari italiani, passando per gli anni di piombo. Come mai?

Semplice curiosità. La curiosità di voler conoscere o approfondire determinati argomenti è alla base della mia attività da sempre.

Qualcuno potrebbe pensare che talune pubblicazioni siamo frutto di tue simpatie politiche. Confermi?

La politica, con le sue dinamiche, è diametralmente opposta alla mia persona. La curiosità e l’interesse, soprattutto dal punto di vista giornalistico e umano, non sono da confondere con altro. Mi si può accusare di aver trattato argomenti che per alcuni sono tabù o di essermi rapportato a personaggi “scomodi” se non addirittura “non degni” di ricevere attenzioni. Personalmente ho sempre scelto liberamente gli argomenti da trattare, senza sentire il dovere di giustificarmi. Tantomeno non ho mai dovuto adattare i miei scritti a esigenze editoriali, di partito o di opportunità. Rispondo solo a me stesso e alla mia coscienza.

Dunque, se ti chiedo di parlare di politica, dell’attuale situazione italiana non mi rispondi?

Preferisco parlare di moto o di altro. (Su questo Ippolito appare irremovibile)

Torniamo alle tue pubblicazioni. Hai pubblicato con varie realtà editoriali, piccole, medie e grandi.  Che differenze hai trovato e con quali ti sei trovato meglio?

Il discorso è complesso. Ogni editore ha i suoi aspetti positivi. Vorrei sfatare un luogo comune. Pubblicare con un grande editore non rappresenta una svolta o un cambiamento per un autore. Un medio o piccolo editore, ma con un’ottima distribuzione e attivo nella promozione, può risultare determinante nel successo di un libro, anche rispetto a certi colossi editoriali. E poi c’è il fattore umano che è determinante.

Che cosa intendi?

Il rapporto tra autore ed editore. Negli anni, avendolo sperimentato in modi diversi, mi sono reso conto che il rapporto umano non ha prezzo. Poter telefonare al proprio editore per confrontarsi e parlare reciprocamente senza alcun tipo di problemi è la cosa migliore che possa capitare ad un autore.

Che rapporto hai con i colleghi?

Sono uno che fa vita “ritirata”, se così si può dire. Lo scrittore è un lavoro solitario, almeno per come lo concepisco.

C’è qualche scrittore che ami in modo particolare o al quale ti sei ispirato?

Sono un estimatore di Valerio Evangelisti e di Mauro Corona, due autori contemporanei, molto diversi fra loro, ma eccelsi. E poi amo Buzzati, Malaparte, Eco, gli statunitensi Edgar Allan Poe, Howard Phillips Lovecraft e Robert E.Howard, quest’ultimo padre di Conan e di altri personaggi e cicli memorabili.

Cosa significa per te scrivere?

Dare sfogo alla mia fantasia. Cercare di regalare a me stesso e poi ai lettori momenti di svago, di puro intrattenimento.

Solo intrattenimento?

Dipende. Non pretendo di suscitare riflessioni su determinati aspetti della vita, ma se succede ben venga. La lettura è un qualcosa di troppo personale e intimo per subire condizionamenti. Lo scrittore propone, il lettore legge e trae qualcosa di suo.

Progetti imminenti o futuri?

Ho appena terminato la stesura de I diavoli di Bargagli. Tempo di riprendermi e penserò al terzo romanzo della “saga” del banchiere. Il tutto però senza fretta. Un po’ come quando si va in giro con una bicilindrica di Milwaukee

 

Ancora una testimonianza del Maggiore Tullio Moneta sull’epopea dei mercenari in Congo

Ancora una testimonianza del Maggiore Tullio Moneta sull’epopea dei mercenari in Congo

 “Non uccidetemi, non uccidetemi!”

I mercenari del 5 Commando di stanza a Baraka, la base militare lungo il lago Tanganika, compivano azioni di guerriglia contro i ribelli Simba, una, o due volte alla settimana, dietro indicazione dei villaggi congolesi, che fornivano pure scout e portatori di armi e viveri.

Senza questo aiuto i mercenari non avrebbero vinto i ribelli Simba.

Una volta, nel 1966, fu attaccato un grosso villaggio Simba nel Kivu.

Furono necessari due gruppi di dodici uomini ciascuno, più gli scout katanghesi e i portatori congolesi. La colonna di attacco era formata dal gruppo “Tiger” (tigre) del tenente Tullio Moneta e dal gruppo “Wildcat” (gatto selvaggio) del tenente Boet Schoeman.

Li comandava il capitano Peter Ross-Smith.

I gruppi venivano aggregati quando venivano attaccati forti contingenti di Simba, soprattutto quando occorrevano diversi giorni per le operazioni.

Partendo da Baraka, i due gruppi facevano percorsi diversi, di notte, per poi riunirsi prima dell’alba nei pressi del villaggio Simba.

Dopo la conclusione dell’azione, la ritirata avveniva velocemente sempre per sentieri diversi dai primi, per non essere intercettati.
Il villaggio, oggetto dell’attacco, era a circa duecento metri più in basso ed era sistemato in un bell’ordine razionale. Esisteva pure una costruzione di mattoni con tetto di lamiera.

Divideva in due il villaggio un ruscello di circa tre metri di larghezza, in cui scorreva un’acqua limpidissima.

Intorno al villaggio c’erano piantagioni di manioca.

Era l’alba e nel villaggio dormivano tutti e senza sentinelle.

Era un luogo di pace. Idilliaco…

I ventiquattro mercenari si prepararono ad attaccare in silenzio, a cinque passi l’uno dall’altro, per un fronte di cento metri, predisponendosi in due gruppi ad “L”, per il tiro incrociato. Intanto alcuni Simba si erano svegliati, predisponendosi per le abluzioni al ruscello e per la colazione.

Tacevano ancora insonnoliti, oppure parlottavano, ignari dell’attacco… Non c’erano bambini.
I mercenari, ad un segnale del capitano Ross-Smith col “walkie talkie”, scatenarono un inferno di fuoco… I Simba non tentarono una resistenza e, lasciando morti e feriti sul terreno, fuggirono abbandonando le armi e, attraversato il ruscello, si inerpicarono su per il costone di una collina, dove furono colpiti alle spalle.

Se ne salvarono pochi.

Nell’area del villaggio si contarono venti Simba morti. Nessun ribelle fu catturato.

Nessuno andò a contare i Simba uccisi sul costone della collina.

Nella costruzione di mattoni con il tetto in lamiera erano accatastate fino al soffitto centinaia di zanne d’elefante, che i Simba avrebbero ceduto ai trafficanti in cambio di armi e munizioni.

Rastrellando il villaggio, furono trovati nascosti in una capanna una donna vecchissima, con i capelli bianchi come la neve. Tullio non aveva mai visto un’africana di tarda età con i capelli di quel candore.

Insieme a lei, c’era un adolescente con una gamba poliomielitica.

Non erano di sicuro dei Simba combattenti, ma solo dei civili che vivevano con i Simba. Quindi, erano stati lasciati in vita.

Purtroppo un mezzosangue, un meticcio di Città del Capo, di nome Greyling, diceva a voce alta di voleva tagliare la gola col machete ad ambedue.

Forse per darsi delle arie. I mercenari disapprovavano l’intenzione.

“Siamo dei soldati, non dei macellai – mormoravano. Tullio, avvisato da qualcuno del suo gruppo, disse al mezzosangue di non azzardarsi a toccarli. Al che il mezzosangue rispose: “Tu non sei il mio comandante e quindi non ti obbedisco”, rimarcando in tal modo di fare parte della pattuglia dei “Wildcat”, e non delle “Tiger” di Tullio.

Il comandante del mezzosangue si chiamava “Boet” Schoeman, di circa 29 anni, di professione cacciatore di elefanti e bufali, organizzatore di safari di caccia grossa, insieme alla sua famiglia.

Era un ottimo guerrigliero. Aveva combattuto con i “Selous Scouts” rhodesiani contro i guerriglieri dello ZANU di Robert Mugabe.

Spesso andava ad esplorare la zona insieme ai katanghesi, per poi riferire alla pattuglia ove erano i Simba.

“Boet” Schoeman aveva però un difetto, una mania: era di “grilletto facile”…

Nel senso che risolveva le controversie con gli altri estraendo la pistola e facendo fuoco senza discutere… “Boet” aveva ammazzato in Sudafrica due poliziotti in borghese, poiché lo stavano vessando e volevano disarmarlo. Il giudice lo aveva scagionato, poiché all’epoca si aveva il diritto di andare in giro armati con due armi corte, pistola o revolver..

Aveva in seguito ammazzato a sangue freddo qualche Simba e freddato pure due mercenari…
Per questo motivo, quando andava a parlare con lui, Tullio Moneta levava prima la sicura alla Walther P38, cal. 9 mm parabellum, che teneva, sempre pronta, al fianco destro, o sotto l’ascella sinistra, con il colpo in canna.

Come è noto, la P38 è un’ottima pistola tedesca a “doppia azione”.

Ciò significa che quando la cartuccia è in canna e il cane abbassato, si può sparare premendo semplicemente il grilletto. In tal modo si provoca automaticamente l’armamento del cane, che colpirà poi la cartuccia e farà partire il colpo.

Tullio teneva nel serbatoio gli otto colpi prescritti, più uno in canna, pronto all’uso.

“Boet” Schoeman aveva invece una Browning 9 mm Parabellum, che non era dotata della “doppia azione”. Significa che per sparare doveva prima, col pollice, alzare il cane e poi tirare il grilletto.

Tecnicamente, l’arma era inferiore a quella di Tullio. Estraendo contemporaneamente la pistola, Tullio avrebbe sparato per primo. Però, “Boet” era velocissimo ad estrarre e a fare fuoco.

Tullio aveva visto farlo con un gattino che fuggiva dalla cucina con un pezzo di carne in bocca. “Boet” fu un fulmine ad estrarre la Browning e a fare fuoco a ripetizione sul gattino, che saltava di qua e di là per gli schizzi di ghiaia delle pallottole, mancato per due dita.

Il micio si salvò e non si fece vedere per un lungo periodo di tempo, preferendo cacciare i topi, molto abbondanti e carnosi in quelle zone equatoriali, piuttosto che rischiare di incontrare quel pazzo di “Boet” Schoeman… Che aveva pure una mira infallibile: ogni tanto, a richiesta, con un colpi di fucile FN accendeva la capocchia di un fiammifero tenuto in mano da un mercenario a venti metri di distanza… Tullio lo aveva visto fare una ventina di volte.

“Boet” Schoeman e Tullio Moneta si stimavano reciprocamente.

“Boet” chiamava Tullio con il soprannome di “Zorba”. Pure i katanghesi avevano dato a Tullio il soprannome di “Chifambausiku”, che significa “colui che si muove di notte”, oppure “colui che attacca di notte”.

A “Boet” – secondo il parere di Tullio – mancava qualche rotella.

Al punto che riuscivano a stare con lui solo coloro che non avevano una personalità propria e che, all’occorrenza, scimmiottavano il loro comandante.
Tullio ricorda che una volta catturarono in un villaggio Simba un congolese che si era nascosto.

Costui era troppo ben vestito – camicia immacolata e pantaloni perfettamente stirati – per poter essere un Simba qualsiasi. Inoltre, aveva con sé una cartella gonfia di documenti, alcuni dei quali scritti in russo

. La cartella fu confiscata per essere inviata a Leopoldville. Schoeman ordinò al congolese “pesi, pesi”, “cammina, cammina” in swahili.

Quello, invece, si dette alla fuga, ma fu fermato dopo quindici metri, colpito alla nuca, dalla pistolettata infallibile di Schoeman.
Poi, un sergente di Schoeman si avvicinò a sua volta al morto e sparò un’altra pistolettata alla testa, mentre il sangue “gorgogliava” dal foro del primo colpo…

Allo sguardo di disapprovazione di Tullio l’idiota rispose: “Dovevo pulire l’arma”. Voleva farsi bello con il suo comandante sparando pure lui al congolese morto.

In questa occasione, era necessario sparare al fuggitivo?

Quando un Africano, malgrado i piedi piatti – poiché i neri hanno i piedi piatti – si mette a correre nessun bianco potrebbe competere con lui per riacciuffarlo.

Quindi, era necessario sparare per fermarlo. Soprattutto, perché non era un congolese qualsiasi, ma un esponente dei ribelli Simba.

C’era chi, avendo una personalità più definita, non voleva rimanere con Schoeman e faceva a Tullio la richiesta di fare parte del suo plotone.

Tullio rispondeva loro di chiedere il permesso al loro comandante Schoeman. In quattro lasciarono Schoeman dopo che ottennero il permesso. Ricorda solo tre nomi di quei quattro: J. Swart, Swanepoell e Penton Ferreira.
Tullio, prima di accettarli, andò da “Boet”, che gli rispose di prenderseli.

C’era anche un motivo: egli voleva con sé Piero Nebiolo che proveniva dalla Legione Straniera e aveva combattuto nel Vietnam francese e nella battaglia di Dien Bien Phu, dove la Francia perse la sua colonia.

Tullio tergiversava, pure perché Nebiolo – un guerriero esperto e coraggioso – non voleva andare con un “pazzo” sparatore impulsivo, ed anche perché non sapeva parlare e capire la lingua inglese.

Torniamo ora al caso della vecchia e del ragazzo poliomielitico, che il mercenario Greyling voleva sgozzare.

Mentre la donna girava intorno lo sguardo terrorizzato, con gli occhi fuori dalle orbite, il ragazzo implorava in francese: “Il faut pas me tué, il faut pas me tué… Non uccidetemi, non uccidetemi”.
Tullio rispose al ragazzo: “No, nessuno ti ucciderà!”.

Poi, rivolto a Greyling, il mezzosangue, disse: “Come ti permetti di fare queste cose? Che razza di soldato sei? Non ti vergogni? Se ti azzardi a fare loro del male, ti ammazzo con le mie mani”.

Mentre diceva a Greyling queste minacce, anche gli stessi commilitoni esprimevano il loro malumore per la crudeltà di quel mezzosangue sudafricano.

Poi andò dal comandante Schoeman.

Anche in questa occasione, come faceva sempre, Tullio tolse la sicura alla pistola e andò incontro a “Boet” Schoeman.
“Senti, “Boet”, c’è là quel tuo mezzosangue, quel Greyling, che vuole tagliare la gola a quella vecchia e a quel ragazzo poliomielitico”.
Fissando “Boet” negli occhi, gli disse. “Se qualcuno farà del male a quei due, a quella vecchia e all’altro che è poliomielitico, è la volta che mi arrabbio sul serio. E’ chiaro, “Boet”?”
Schoeman si mise a ridere e avvenne il miracolo. “Zorba, non ti preoccupare, nessuno farà del male a quei due. E poi è domenica… Adesso ci penso io – promise.
Boet si avvicino a Greyling e gli intimò: “Non azzardarti a toccare questi due! Okay?”

Greyling non tentò neanche di aprire la bocca.

Tacque e si allontanò a testa bassa.

Sapeva bene che se si fosse azzardato a replicare, pure con lo sguardo, il capitano Schoeman avrebbe estratto fulmineo la pistola e gli avrebbe sparato in bocca. Era una cosa risaputa.
La prima cosa che dicevano ai nuovi arrivati era: “Obbedisci sempre al tenente “Boet” Schoeman e non replicare mai. Ne va della tua vita”…

Intanto, il ragazzo, che tremava e batteva i denti dal terrore, aveva avuto un attacco di diarrea, che gli colava dai calzoncini lungo le gambe… Schoeman ordinò ad un katanghese di caricarsi il ragazzo sulle spalle
e di metterlo al sicuro, insieme alla vecchia in un capanna fuori del villaggio.

Il katanghese non voleva caricarsi sulle spalle il ragazzo per non sporcarsi la schiena, ma uno sguardo di Schoeman gli fece capire di obbedire senza replicare, per non finire ammazzato.

Era pure certo che Schoeman non avrebbe chiesto al tenente Mutambala, che comandava i katanghesi, il permesso di sparare a quel suo soldato katanghese: avrebbe estratto dalla fondina la pistola e fatto fuoco.

Nella jungla i comportamenti sono diversi da quelli delle truppe regolari, burocratiche e rispettose della gerarchia.

Nella giungla, o si è rispettati e temuti, o si rischia la vita con il “fuoco amico” alla prima occasione.

Mentre il katanghese trasportava il ragazzo poliomielitico verso una capanna, la vecchia si appoggiava al braccio di Tullio, dicendogli “pole, pole”, ossia di camminare lentamente.

Tullio sentiva il contatto della mano della vecchia sul suo braccio, provando nel cuore una strana, umana dolcezza…

Schoeman fece portare nella capanna pure dei viveri per la vecchia e per il ragazzo.

Poi, i katanghesi ebbero l’ordine di bruciare il villaggio.

Essi, felici, lo fecero così bene che dopo poco Tullio e i mercenari si trovarono circondati dalle fiamme, rischiando di finire arrosto.

Si salvarono bagnandosi nel ruscello e correndo lungo il suo letto fino ad uscire dal villaggio.

Si accorsero, poi, che pure la capanna in cui erano la vecchia e il ragazzo aveva preso fuoco e i due rischiavano di morire tra le fiamme. “Boet” Schoeman dette ordine di tirarli fuori.

Due katanghesi si bagnarono i vestiti ed entrarono nella capanna in fiamme, traendo fuori la vecchia e il ragazzo, senza neanche una bruciatura.
Li portarono lontano dalla capanna in fiamme e li misero in un luogo sicuro. I viveri erano andati bruciati con la capanna, ma lì c’era un campo di manioca e i due non sarebbero morti di fame.

Il maialino e le zanne d’elefante

In questa vicenda sono da menzionare due episodi degni di essere immortalati in una sequenza da fiction, tanto sono al di fuori del comune attacco guerrigliero.

Il capitano Peter Ross-Smith aveva appena dato l’ordine del fuoco allo schieramento del tenente Tullio Moneta, dove c’erano anche alcuni degli “wildcat” di Schoeman, quando uno di questi, in sella ad una bicicletta arrugginita e con le ruote prive di tubolari, trovata evidentemente un attimo prima nella savana, si gettò a capofitto, pedalando verso il villaggio.
“Fermi, fermi tutti, cessate il fuoco! – gridò Ross-Smith – Ma chi è quel pazzo?”
Qualcuno disse: “Ma… ma quello è Sporos… E’ impazzito!”
Quando il mercenario in sella alla bicicletta fu fuori della linea di tiro, il fuoco ricominciò.
Sporos era un greco sempre taciturno, che aveva cominciato come mercenario nella precedente ribellione del Katanga del 1961, con Ciombè. Sporos conosceva personalmente Ciombè. Tullio aveva avuto occasione di vedere con quale cordialità quel grande politico congolese parlava con Sporos.
Intanto la battaglia era finita, con i Simba morti, o fuggiti. Tutti pensavano che pure Sporos fosse morto…
Mentre scendevano per occupare il villaggio, il greco riapparve, ansante, mentre risaliva la china.

Quando il capitano Ross-Smith lo vide gli gridò: “Ma che cazzo hai fatto?”
Sporos, raggiante, gli rispose: “Pork!…” indicandogli un maialino scuro, che portava sulle spalle, morto.

L’altro fatto fu cosa avvenne con le zanne d’elefante accatastate nella casetta di mattoni. Sarebbe stato un affare ricchissimo se le avessero trasportate a Baraka come preda di guerra. Purtroppo, i camion della spedizione erano distanti parecchie miglia da quel villaggio. Le zanne sarebbero state quindi bruciate con i lanciafiamme.
Piero Nebiolo chiese a Tullio di mettergli alcuni portatori congolesi a disposizione per portarsi via alcune di quelle zanne. Tullio rispose che i portatori servivano per trasportare le munizioni e i viveri, molto più importanti di quelle zanne d’avorio. Allora Nebiolo, prima che venisse bruciato il deposito, prese tre zanne di elefante non molto pesanti e se le caricò sulle spalle.

Dopo qualche centinaio di metri, Nebiolo abbandonò una zanna di elefante, quella più pesante…

Dopo un’altra mezzora di cammino veloce nel sentiero della savana, ne buttò un’altra…

Dopo un altro chilometro Nebiolo abbandonò la terza zanna, la più piccola che gli era rimasta: aveva le lacrime agli occhi…

 

Testimonianza raccolta da Giorgio Rapanelli

 

La cronaca del blitz notturno a Mboko per eliminare la mitragliatrice pesante cinese Cal. 12,7 mm

La cronaca del blitz notturno a Mboko per eliminare la mitragliatrice pesante cinese Cal. 12,7 mm

La cronaca del blitz notturno a Mboko per eliminare la mitragliatrice pesante cinese Cal. 12,7 mm
Testimonianza del maggiore Tullio Moneta raccolta da Giorgio Rapanelli

 

 

Su di una collina della zona di Mboko a circa 300 metri dalla pista lungo il lago Tanganyka che dalla base del 5 Commando di Baraka portava ad Uvira, a nord, c’era una mitragliatrice pesante calibro 12,7 mm.

Questa arma pericolosa impediva alle colonne di automezzi del 5 Commando di conquistare la cittadina di Uvira.

Già avevamo perduto a Mboko il 18 maggio 1966 il mitico capitano Hugh Van Oppen, probabilmente non a causa di una raffica di kalashnikov, ma per mano del tenente Ross-Johnson, come si mormorava al campo.

Ross-Johnson aveva la fama di killer prezzolato e doveva avere eseguito l’assassinio di Van Oppen per conto di qualcuno. Pure l’autista di un camion era stato centrato, giorni prima, al cuore dal colpo di un cecchino.

Però, il problema vero era quella mitragliatrice pesante che con i suoi proiettili con l’anima al tungsteno perforava da parte a parte un camion, o un’autoblindo Ferret, per poi frantumarsi in schegge pericolose.

No, non si riusciva a passare. La colonna degli automezzi era costretta a ritornare a Baraka.
La mitragliatrice era mimetizzata molto bene tra gli alberi della jungla, che dalla base della collina arrivavano quasi alla sommità, dove poi iniziava la savana.

Anche i caccia bombardieri T-28 che erano stati impiegati per localizzare dall’alto la mitragliatrice, non erano riusciti a scovarla. Evidentemente, doveva essere ben nascosta in una caverna naturale.

Era un problema che doveva essere risolto, poiché si doveva conquistare tutto il territorio congolese del lago Tanganyka, per impedire che dall’altra sponda della Tanzania del buon Nyerere potessero continuare a giungere con le canoe attraverso il lago le armi comuniste ai ribelli Simba, che ancora infestavano la zona di Uvira e di Bukavu.
Furono i civili congolesi ad avvisare i mercenari che sapevano come giungere nel luogo ove era piazzata la mitragliatrice. Si trattava di aggirare la postazione per colpirla alle spalle.

Il colonnello John Peters, che era succeduto al colonnello Mike Hoare nel comando della base di Baraka, organizzò un meeting con gli ufficiali delle pattuglie di mercenari non operative al momento.

Nella sala mensa degli ufficiali il colonnello Peters sparse sul tavolo le carte topografiche della zona di Baraka e di Mboko e pianificò con gli ufficiali e i sottufficiali il piano di attacco alla postazione dei Simba.

Furono organizzati due gruppi di mercenari di venti uomini ciascuno al comando dei tenenti Tullio Moneta e Boet Schoeman. Il comando in capo fu dato al capitano Peter Ross-Smith, un ufficiale che si era distinto nelle operazioni più rischiose fin dalla presa di Stanleyville.

Il tenente Boet Schoeman era noto per la sua mira infallibile.

Da civile organizzava i safari di caccia grossa per i turisti in Kenya. Era soprattutto esperto nello scovare le tracce dei Simba nella savana.
Nella pattuglia di Tullio erano presenti i tre italiani Piero Nebiolo, Eugenio Ciccocelli e Perissinotto, oltre l’ottimo sergente boero Swanepoel, i soldati Penton Ferreira e Butch Scholtz.

Il tenente Mutambala, che comandava i katanghesi di stanza nei paraggi della base di Baraka, aveva fornito alcuni scout. Il villaggio congolese vicino alla base di Baraka aveva fornito altri scout e i portatori.
I quaranta mercenari con gli scout e i portatori salirono su diversi camion, scortati da un paio di autoblindo Ferret al comando di “Skinny” Coleman.

Dovendo aggirare la postazione Simba non si diressero direttamente verso la collina di Mboko, ove era la mitragliatrice pesante. Gli automezzi si diressero, invece, verso sud, come per andare a Fizi.

La colonna ad un certo punto si fermò, mimetizzandosi tra gli alberi della jungla, mentre e gli uomini con portatori e scout si inerpicarono su di una collina, puntando poi a nord, dove a parecchi chilometri si trovava la postazione Simba.
Il sole stava tramontando e nel giro di mezzora fu tutto buio.

Di notte i Simba dormono. Quindi l’attacco a sorpresa sarebbe riuscito di sicuro. In fila indiana i quaranta mercenari con i tre ufficiali e gli scout in testa alla colonna.

I portatori chiudevano la colonna. Era proibito parlare e starnutire.

Anche il più piccolo rumore si sarebbe propagato nel buio della notte, avvisando i Simba della presenza della colonna.

Il buio era pesto.

Le alte erbe occludevano la vista del cielo stellato: queste si aprivano davanti al mercenario che veniva prima e si chiudevano dinnanzi al mercenario che veniva dopo. Il sentiero si sentiva solo con i piedi.

Gli scout katanghesi andavano avanti e indietro lungo la colonna, per controllare se qualcuno della pattuglia si era perso, avendo “preso” con i piedi un altro sentiero.
Quando gli scout riuscirono ad individuare la postazione della mitragliatrice cominciava ad albeggiare.

Tornarono indietro, sussurrando ai tre comandanti dove dirigersi.

Poi scout e portatori si acquattarono per essere fuori tiro.
Parlando all’orecchio di ogni mercenario i comandanti posizionarono ad “elle” gli uomini. Tullio Moneta e Boet Schoeman scelsero i loro migliori combattenti e li schierarono sul fianco destro dell’accampamento dei Simba.

Con Tullio erano i tre italiani e Swanepoel. Intanto, qualche Simba era già sveglio e chiacchierava ridendo con altri ribelli. Ormai il sole stava per sorgere e i Simba si vedevano bene, salvo quelli che ancora dormivano, stesi tra le erbe della savana.
Improvvisamente i Simba si accorsero della presenza dei mercenari e tentarono la fuga urlando, per avvisare gli altri…

I mercenari aprirono il fuoco mirando ai bersagli visibili o tirando a raffica nel folto della savana.

Da una caverna tre Simba portarono fuori la sola mitragliatrice pesante, dandosi alla fuga e cercando di salvarla. La mitragliatrice pesante, montata su di un treppiede, non era visibile dagli aerei perché era nascosta in una caverna naturale.

Il Simba che trasportava l’arma dalla parte più pesante, ossia la parte posteriore, fu colpito e la mitragliatrice, cadendo, rimase ritta da terra.

Poiché si sentivano voci all’interno della caverna, due bombe a mano fecero il silenzio per sempre.
Terminata la breve scaramuccia, i mercenari raggrupparono i Simba ancora in vita e legarono con delle corde il collo dei prigionieri ad una canna di bambù, uno di qua ed uno di là, secondo il sistema dei negrieri arabi. Il capitano Ross-Smith interrogò brevemente i prigionieri.

Ma fu interrotto da una animata discussione tra Boet Schoeman e Piero Nebiolo, che non capiva l’inglese.

Il tenente Schoemann era furente per il fatto che Nebiolo, stando alla sua sinistra durante il combattimento, gli aveva fatto arrivare sul volto i bossoli roventi sparati dal suo FN.

Poiché Nebiolo non capiva le rimostranze di Scheoman, quest’ultimo, per farsi capire, cominciò a sparare i venti colpi del suo caricatore, con i bossoli roventi espulsi che “friggevano” sulle gote di Nebiolo.

Il quale, alla fine della sparatoria, rivolgendosi al tenente Schoeman, disse semplicemente in francese “Et alors?”.

“E allora?” Schoeman si allontanò biascicando parole incomprensibili.
La colonna degli attaccanti cominciò a scendere la collina, portando con loro la mitragliatrice catturata, da utilizzare a difesa della base.

Giunti al villaggio dei civili congolesi furono accolti dal giubilo delle donne che emettevano i classici striduli vocalizzi con la lingua, agitando rami di palma.

Alla vista di uno dei Simba si scagliarono contro di lui con l’intenzione di linciarlo. I mercenari fecero barriera, salvando quel Simba.

In modo concitato le donne spiegarono ai mercenari che costui aveva commesso abusi e crudeltà in quel villaggio e volevano una esemplare condanna a morte.

Poiché non esisteva in quel territorio una corte di giustizia, pretesero giustizia dai mercenari stessi. Il colonnello Peters incaricò il tenente Tullio Moneta, che parlava francese, di creare un processo con tanto di accusa e di difesa. Così avvenne…

Per i crimini commessi il Simba fu condannato a morte mediante impiccagione. Quando ascoltò la sentenza non ebbe alcuna reazione.

Solo l’alluce del piede destro batteva ritmicamente sul terreno.

 

 

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

A distanza di vent’anni l’ex mercenario Tullio Moneta racconta dell’incarico ricevuto di rapire l’ex dittatore etiope Mengistu. Testimonianza raccolta da Giorgio Rapanelli.

Nel 1990 Tullio Moneta fu incaricato da una “intelligence” occidentale di rapire l’ex-dittatore rosso dell’Etiopia Mengistu, che si era macchiato di crimini contro l’umanità.

Doveva essere un’”operazione segreta”.

Qualora le cose dovessero andare storte, i paesi non vorrebbero essere coinvolti per motivi politici, negando così ogni coinvolgimento nelle operazioni.
Fuggito dall’Etiopia, Mengistu era stato accolto nello Zimbabwe dal dittatore Mugabe.

Mengistu viveva in uno chalet di proprietà di una cittadina somala sul lago Kariba.

Tullio conosceva bene quella zona turistica, che aveva frequentato con il suo colonnello Mike Hoare, comandante del 5 Commando in Congo nell’azione militare contro i ribelli Simba.

Erano insieme in quella zona per organizzare qualcosa che poi non andò in porto.
Lo chalet si trovava a circa 200 metri dalla riva nord del lago.

Si trattava di rapire Mengistu, caricarlo su di un aereo e riportarlo in Etiopia, dove sarebbe stato processato e condannato a morte… Condanna che sarebbe stata poi tramutata in ergastolo.
Insieme a due mercenari, Tullio Moneta fece un sopralluogo della zona di operazioni.

Scattò delle foto dello chalet, dell’ambiente intorno, dell’intera zona e delle strade, delle due guardie del corpo che guardavano Mengistu e dello stesso Mengistu che passeggiava in abiti civili.

Tullio e i due mercenari si muovevano nella zona camuffati da pescatori, che come altri pescatori si cimentavano nella pesca del “tiger fish”, il “pesce tigre” del lago Kariba, molto difficile da catturare.

La cattura di Mengistu non avrebbe invece presentato problemi per i cinque mercenari che insieme a Moneta avrebbero sopraffatto, addormentato e legato le due guardie del corpo grassocce, probabilmente soldati locali dello Zimbabwe.

Non sarebbe stato necessario eliminare le due guardie del corpo, sparando con le penne stilografiche cal. 22 R.L. di cui erano dotati: un armamento non compromettente, ma micidiale…
Avrebbero facilmente catturato Mengistu, messo nel portabagagli di un’auto e trasportato a cinque chilometri da lì, dove li aspettava su di una pista della savana un Chessna che  sarebbe volato fino ad Addis Abeba con a bordo l’ex dittatore.
Intanto Tullio Moneta e i cinque mercenari sarebbero diventati turisti per alcuni giorni in Botswana, al “Mowame Lodge” sul fiume Chobe, un affluente dello Zambesi, prima di tornare in Sudafrica attraverso la “Caprivi Strip”, punto di contatto con Zimbabwe, Namibia e Botswana.

Tuttavia le cose non si erano rivelate così facili…Innanzitutto non era stato possibile contattare un pilota della squadra di Jack Malloch, che avrebbe dovuto portare Mengistu in Etiopia.

Negli anni Ottanta Malloch, che era stato il pilota coinvolto nel fallito colpo di Stato delle Seychelles, ed era scomparso misteriosamente mentre volava con in suo Spitfire restaurato.

Pure il dottore Hans Germani, medico, scrittore e conoscitore di diverse lingue, amico di Tullio Moneta fin dai tempi del Congo, era stato, secondo dicerie, assassinato dalla polizia dello Zimbabwe.

In più, i sondaggi prevedevano una pesante sconfitta del dittatore Mugabe da parte del democratico Morgan Tsvangirai alle prossime elezioni presidenziali.

L’operazione diventava sempre più difficile da attuare.

Quindi, poco prima che Tullio Moneta potesse realizzare il rapimento di Mengistu, arrivò un messaggio radio che dava l’ordine di “ABORT ACTION”. Ossia, l’operazione rapimento di Mengistu era annullata.

La decisione era stata presa in previsione della vittoria di Tsvangirai, che, una volta diventato presidente, avrebbe fatto deportare Mengistu in Etiopia.
Tullio Moneta e i cinque mercenari trascorsero di conseguenza alcuni giorni al “Mowane Lodge” a spese dei mandanti del rapimento di Mengistu che non riconobbero ai cinque mercenari il compenso d’ingaggio pattuito, in quanto il rapimento non era avvenuto.
Come previsto, Tsvangirai vinse le elezioni, ma Mugabwe non accettò la sconfitta e rimase al potere.

Menghistu nel frattempo continuò a rimanere nello Zimbabwe come suo ospite.