17 agosto 1973, l’ arresto di Rognoni in Svizzera.
Dopo quei giorni di colloqui e di incontri, Anna ed io decidemmo di partire per la Spagna. Utilizzammo l’auto con cui lei mi aveva raggiunto e partimmo insieme ad una comune amica che l’aveva accompagnata in Svizzera. Alla frontiera con la Francia fummo fermati. Probabilmente erano stati informati dei nostri spostamenti. Carlo Maria Maggi fece delle illazioni su qualcuno che era informato della nostra presenza e che avrebbe potuto segnalarci, ma mi sento di respingere l’ipotesi di una soffiata. La polizia svizzera mi arrestò il 17 agosto 1973, su richiesta di estradizione pervenuta dall’Italia. Rimasi in carcere a Ginevra alcuni mesi. Ricordo solo che era un carcere molto diverso da quelli italiani; non era particolarmente affollato e la maggior parte dei detenuti erano piccoli malfattori. Forse i soggetti più particolari erano due: io stesso ed un sospetto terrorista arabo legato a non so quale attentato. Ricordo che costui si premurò di farmi avere in carcere una copia del Corano in francese. Dopo quella detenzione fui messo in libertà provvisoria dalle autorità elvetiche e restai lì per altri cinque o sei mesi, in attesa della decisione sull’eventuale estradizione in Italia.
Si svolse un procedimento a mio carico in Svizzera. A difendermi ci sarebbe stato un avvocato d’ufficio.
Ricordo che il magistrato mi rassicurò sul fatto che il difensore d’ufficio non sarebbe stato un ripiego, poiché all’epoca in Svizzera (non so se oggi sia ancora così) all’inizio della carriera gli avvocati dovevano professare come avvocati d’ufficio prima di accedere liberamente alla professione. Mi rassicurò quindi sul difensore che mi sarebbe stato assegnato.
Nonostante queste garanzie ricorsi ai miei contatti. Venne in mio soccorso il banchiere François Genoud, con il quale ero stato messo in contatto da Gaston Armand Amaudruz che dirigeva una rivista culturale svizzera vicina alle nostre posizioni.
Tratto da: Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Unatestimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni
23 luglio 1977. Giancarlo Rognoni viene estradato dalla Spagna all’Italia.
Mi tradussero da Madrid a Genova. Viaggiai su un volo Alitalia scortato da carabinieri. I passeggeri presenti apparivano visibilmente preoccupati dalla mia presenza e dal dispiego di forze che mi accompagnava. All’aeroporto le forze dell’ordine erano presenti in massa per prendermi in consegna. Ricordo che nella foga ad un poliziotto cadde anche il caricatore di un M12 mentre mi scortavano.
Fui portato al carcere di Marassi dove venni messo momentaneamente, in una sorta di continuità con il periodo madrileno, in una cella sotterranea in disuso. Dopo mezz’ora che ero lì vennero per trasferirmi nella cella definitiva, ma la serratura si era bloccata. Sembrava una barzelletta… Riuscirono ad aprirla, con fatica, e da quel momento iniziò ufficialmente il mio percorso carcerario in Italia.
Così viene descritto dal Corriere della Sera l’arrivo di Rognoni in Italia: Il neofascista milanese Giancarlo Rognoni, l’ideologo e fondatore del gruppo eversivo “La Fenice”, arrestato nel febbraio di quest’anno in Spagna ed estradato ieri in Italia, è giunto all’aeroporto del capoluogo ligure verso le 19, sempre di ieri sera, con un aereo proveniente da Roma. È stato subito condotto nelle carceri di Marassi, dove attenderà il processo d’appello per il fallito attentato al treno Roma-Torino, che inizierà a Genova il 16 ottobre. Giancarlo Rognoni era giunto nel pomeriggio a Fiumicino a bordo di un volo di linea proveniente da Madrid. Era accompagnato da due funzionari dell’Interpol, che lo avevano preso in consegna alla partenza dalla capitale spagnola. Era apparso contrariato dalla presenza dei fotografi e non aveva voluto rilasciare dichiarazioni (…)»: Rognoni estradato da Madrid rinchiuso ieri a Marassi, “Corriere della Sera”, 23 luglio 1977.
Tratto da: Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Unatestimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni
La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese
Un libro di Giancarlo Rognoni e Ippolito Edmondo Ferrario, Ritter Edizioni
“In quegli anni la militanza ci imponeva di misurarci quotidianamente con
situazioni di violenza fisica, perché la violenza era all’ordine del giorno. Lo
scontro fisico, lieve o pesante che fosse, era la normalità per chi faceva politica.
Rappresentando una minoranza, noi neofascisti avevamo la vita non facile.
Più volte durante le manifestazioni partecipammo ad aspri scontri, ma i problemi
non si limitavano a queste situazioni. Si diventava dei possibili bersagli
dal momento in cui si usciva di casa fino a quando non si rientrava.
Fu quindi necessario attrezzarci per sopravvivere. È un dato evidente che
la cosiddetta “caccia al fascista” era una pratica abitualmente perpetrata a cominciare
dalle scuole e nelle strade. Di conseguenza ci organizzammo per
rispondere a questa violenza con altrettanta violenza”.
Il 15 giugno del 1906, presso il borgo di Bouillon nelle Ardenne belghe, nasceva Léon Joseph Marie Ignace Degrelle, il leggendario soldato belga che avrebbe infiammato i cuori di generazioni di neofascisti. Così Giancarlo Rognoni ne ricorda il primo incontro:
L’incontro con Degrelle mi aprì un mondo sconosciuto. Di lui ho molti ricordi. A cominciare da quando suonai alla sua porta e lui mi aprì dicendomi: «Bienvenu chez nous, mon camarade». L’accoglienza da parte sua e della moglie Jeanne Brevet fu davvero impeccabile e calorosa. Da quel momento iniziò una lunga frequentazione. A dispetto di quello che uno si sarebbe potuto aspettare, Degrelle non era un uomo che viveva per raccontare le sue gesta, anzi. Quel genere di racconti li condivideva solo con i suoi amici più intimi. Questo lo posso affermare dato che iniziai a vederlo quasi settimanalmente. Innumerevoli volte andai a casa sua ed ebbi modo di ascoltarlo e di confrontarmi con lui. Ciò che mi colpì fin da subito fu il fatto di non essere ancorato al suo passato; non era nel suo temperamento rimanere legato ad un periodo specifico della sua vita.
Ebbi fin da subito l’impressione di un Degrelle che viveva l’attualità, che seguiva da vicino le vicende internazionali con grande occhio critico. Conobbi quindi non solo il Degrelle pluridecorato combattente delle Waffen SS, ma il Degrelle politico, scrittore, il Degrelle filoarabo, l’estimatore delle arti e della storia. Fu grazie a lui che venni introdotto a quel mondo di personalità, per lo più francofone, molto distanti dal mondo italiano da cui provenivo.
Mi trovai perfettamente a mio agio con Degrelle, anche per una certa sintonia nella visione della vita, pur essendo maturata da esperienze molto diverse.
Tratto da Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni.
Il 30 maggio a Pian del Rascino, in provincia di Rieti, viene ucciso Giancarlo Esposti in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Con lui vengono arrestati Alessandro D’Intino, Salvatore Umberto Vivirito (arrestato un giorno dopo in quanto non presente durante il conflitto a fuoco) e Alessandro Danieletti. La dinamica degli investigatori è la seguente: giunti i carabinieri e le guardie forestali sul posto, dove da qualche giorno sono accampati i neofascisti, i primi ingaggiano un conflitto a fuoco in cui Esposti muore. Gli altri camerati vengono arrestati. A centinaia di chilometri di distanza Cesare apprende della morte dell’amico che ormai non vedeva né sentiva da mesi. È sconvolto e con lui gli altri che hanno conosciuto Giancarlo. Un senso di desolazione e di rabbia serpeggia tra i ragazzi della piazza milanese. La sera dopo Cesare andrà a casa di Giancarlo per portare le proprie condoglianze alla famiglia. E mentre ancora si piange la morte di Giancarlo, sulla scena si insinua qualcosa di inquietante che è la prova della presenza di apparati dello stato che operano con precisi scopi. Da Brescia i giudici avevano divulgato tempo prima l’identikit di quello che sarebbe dovuto essere l’attentatore di piazza della Loggia: Giancarlo Esposti. I magistrati bresciani mettono in relazione i fatti di pian del Rascino con la strage di Brescia. Il gruppo di Esposti sarebbe il responsabile della strage, l’esplosivo trovato sulle alture di Rieti lo stesso utilizzato in piazza della Loggia. Peccato che ci sia un dettaglio fondamentale che smonta il teorema: quando Giancarlo viene ucciso porta una barba folta che si è fatto crescere da parecchio tempo, mentre il Giancarlo dell’identikit di Brescia è senza un filo di barba. Si è cercato quindi di “confezionare” a tavolino il colpevole della strage. Cesare vuole partecipare ai funerali dell’amico, ma non potrà farlo. Dalla perquisizione del cadavere di Esposti in una delle tasche viene rinvenuta una fototessera di Cesare che lo ritrae, sul retro della quale è riportato il suo nome e cognome. Un elemento che serve alle indagini per poter mettere in relazione il defunto Esposti con Ferri. Dopo l’ennesima perquisizione in casa sua, Cesare viene tradotto nel carcere di Brescia.
Tratto da: Susanna Dolci, Ippolito Edmondo Ferrario, Cesare Ferri. Genesi di unribelle, Edizioni Settimo Sigillo