“Non uccidetemi, non uccidetemi!”
I mercenari del 5 Commando di stanza a Baraka, la base militare lungo il lago Tanganika, compivano azioni di guerriglia contro i ribelli Simba, una, o due volte alla settimana, dietro indicazione dei villaggi congolesi, che fornivano pure scout e portatori di armi e viveri.
Senza questo aiuto i mercenari non avrebbero vinto i ribelli Simba.
Una volta, nel 1966, fu attaccato un grosso villaggio Simba nel Kivu.
Furono necessari due gruppi di dodici uomini ciascuno, più gli scout katanghesi e i portatori congolesi. La colonna di attacco era formata dal gruppo “Tiger” (tigre) del tenente Tullio Moneta e dal gruppo “Wildcat” (gatto selvaggio) del tenente Boet Schoeman.
Li comandava il capitano Peter Ross-Smith.
I gruppi venivano aggregati quando venivano attaccati forti contingenti di Simba, soprattutto quando occorrevano diversi giorni per le operazioni.
Partendo da Baraka, i due gruppi facevano percorsi diversi, di notte, per poi riunirsi prima dell’alba nei pressi del villaggio Simba.
Dopo la conclusione dell’azione, la ritirata avveniva velocemente sempre per sentieri diversi dai primi, per non essere intercettati.
Il villaggio, oggetto dell’attacco, era a circa duecento metri più in basso ed era sistemato in un bell’ordine razionale. Esisteva pure una costruzione di mattoni con tetto di lamiera.
Divideva in due il villaggio un ruscello di circa tre metri di larghezza, in cui scorreva un’acqua limpidissima.
Intorno al villaggio c’erano piantagioni di manioca.
Era l’alba e nel villaggio dormivano tutti e senza sentinelle.
Era un luogo di pace. Idilliaco…
I ventiquattro mercenari si prepararono ad attaccare in silenzio, a cinque passi l’uno dall’altro, per un fronte di cento metri, predisponendosi in due gruppi ad “L”, per il tiro incrociato. Intanto alcuni Simba si erano svegliati, predisponendosi per le abluzioni al ruscello e per la colazione.
Tacevano ancora insonnoliti, oppure parlottavano, ignari dell’attacco… Non c’erano bambini.
I mercenari, ad un segnale del capitano Ross-Smith col “walkie talkie”, scatenarono un inferno di fuoco… I Simba non tentarono una resistenza e, lasciando morti e feriti sul terreno, fuggirono abbandonando le armi e, attraversato il ruscello, si inerpicarono su per il costone di una collina, dove furono colpiti alle spalle.
Se ne salvarono pochi.
Nell’area del villaggio si contarono venti Simba morti. Nessun ribelle fu catturato.
Nessuno andò a contare i Simba uccisi sul costone della collina.
Nella costruzione di mattoni con il tetto in lamiera erano accatastate fino al soffitto centinaia di zanne d’elefante, che i Simba avrebbero ceduto ai trafficanti in cambio di armi e munizioni.
Rastrellando il villaggio, furono trovati nascosti in una capanna una donna vecchissima, con i capelli bianchi come la neve. Tullio non aveva mai visto un’africana di tarda età con i capelli di quel candore.
Insieme a lei, c’era un adolescente con una gamba poliomielitica.
Non erano di sicuro dei Simba combattenti, ma solo dei civili che vivevano con i Simba. Quindi, erano stati lasciati in vita.
Purtroppo un mezzosangue, un meticcio di Città del Capo, di nome Greyling, diceva a voce alta di voleva tagliare la gola col machete ad ambedue.
Forse per darsi delle arie. I mercenari disapprovavano l’intenzione.
“Siamo dei soldati, non dei macellai – mormoravano. Tullio, avvisato da qualcuno del suo gruppo, disse al mezzosangue di non azzardarsi a toccarli. Al che il mezzosangue rispose: “Tu non sei il mio comandante e quindi non ti obbedisco”, rimarcando in tal modo di fare parte della pattuglia dei “Wildcat”, e non delle “Tiger” di Tullio.
Il comandante del mezzosangue si chiamava “Boet” Schoeman, di circa 29 anni, di professione cacciatore di elefanti e bufali, organizzatore di safari di caccia grossa, insieme alla sua famiglia.
Era un ottimo guerrigliero. Aveva combattuto con i “Selous Scouts” rhodesiani contro i guerriglieri dello ZANU di Robert Mugabe.
Spesso andava ad esplorare la zona insieme ai katanghesi, per poi riferire alla pattuglia ove erano i Simba.
“Boet” Schoeman aveva però un difetto, una mania: era di “grilletto facile”…
Nel senso che risolveva le controversie con gli altri estraendo la pistola e facendo fuoco senza discutere… “Boet” aveva ammazzato in Sudafrica due poliziotti in borghese, poiché lo stavano vessando e volevano disarmarlo. Il giudice lo aveva scagionato, poiché all’epoca si aveva il diritto di andare in giro armati con due armi corte, pistola o revolver..
Aveva in seguito ammazzato a sangue freddo qualche Simba e freddato pure due mercenari…
Per questo motivo, quando andava a parlare con lui, Tullio Moneta levava prima la sicura alla Walther P38, cal. 9 mm parabellum, che teneva, sempre pronta, al fianco destro, o sotto l’ascella sinistra, con il colpo in canna.
Come è noto, la P38 è un’ottima pistola tedesca a “doppia azione”.
Ciò significa che quando la cartuccia è in canna e il cane abbassato, si può sparare premendo semplicemente il grilletto. In tal modo si provoca automaticamente l’armamento del cane, che colpirà poi la cartuccia e farà partire il colpo.
Tullio teneva nel serbatoio gli otto colpi prescritti, più uno in canna, pronto all’uso.
“Boet” Schoeman aveva invece una Browning 9 mm Parabellum, che non era dotata della “doppia azione”. Significa che per sparare doveva prima, col pollice, alzare il cane e poi tirare il grilletto.
Tecnicamente, l’arma era inferiore a quella di Tullio. Estraendo contemporaneamente la pistola, Tullio avrebbe sparato per primo. Però, “Boet” era velocissimo ad estrarre e a fare fuoco.
Tullio aveva visto farlo con un gattino che fuggiva dalla cucina con un pezzo di carne in bocca. “Boet” fu un fulmine ad estrarre la Browning e a fare fuoco a ripetizione sul gattino, che saltava di qua e di là per gli schizzi di ghiaia delle pallottole, mancato per due dita.
Il micio si salvò e non si fece vedere per un lungo periodo di tempo, preferendo cacciare i topi, molto abbondanti e carnosi in quelle zone equatoriali, piuttosto che rischiare di incontrare quel pazzo di “Boet” Schoeman… Che aveva pure una mira infallibile: ogni tanto, a richiesta, con un colpi di fucile FN accendeva la capocchia di un fiammifero tenuto in mano da un mercenario a venti metri di distanza… Tullio lo aveva visto fare una ventina di volte.
“Boet” Schoeman e Tullio Moneta si stimavano reciprocamente.
“Boet” chiamava Tullio con il soprannome di “Zorba”. Pure i katanghesi avevano dato a Tullio il soprannome di “Chifambausiku”, che significa “colui che si muove di notte”, oppure “colui che attacca di notte”.
A “Boet” – secondo il parere di Tullio – mancava qualche rotella.
Al punto che riuscivano a stare con lui solo coloro che non avevano una personalità propria e che, all’occorrenza, scimmiottavano il loro comandante.
Tullio ricorda che una volta catturarono in un villaggio Simba un congolese che si era nascosto.
Costui era troppo ben vestito – camicia immacolata e pantaloni perfettamente stirati – per poter essere un Simba qualsiasi. Inoltre, aveva con sé una cartella gonfia di documenti, alcuni dei quali scritti in russo
. La cartella fu confiscata per essere inviata a Leopoldville. Schoeman ordinò al congolese “pesi, pesi”, “cammina, cammina” in swahili.
Quello, invece, si dette alla fuga, ma fu fermato dopo quindici metri, colpito alla nuca, dalla pistolettata infallibile di Schoeman.
Poi, un sergente di Schoeman si avvicinò a sua volta al morto e sparò un’altra pistolettata alla testa, mentre il sangue “gorgogliava” dal foro del primo colpo…
Allo sguardo di disapprovazione di Tullio l’idiota rispose: “Dovevo pulire l’arma”. Voleva farsi bello con il suo comandante sparando pure lui al congolese morto.
In questa occasione, era necessario sparare al fuggitivo?
Quando un Africano, malgrado i piedi piatti – poiché i neri hanno i piedi piatti – si mette a correre nessun bianco potrebbe competere con lui per riacciuffarlo.
Quindi, era necessario sparare per fermarlo. Soprattutto, perché non era un congolese qualsiasi, ma un esponente dei ribelli Simba.
C’era chi, avendo una personalità più definita, non voleva rimanere con Schoeman e faceva a Tullio la richiesta di fare parte del suo plotone.
Tullio rispondeva loro di chiedere il permesso al loro comandante Schoeman. In quattro lasciarono Schoeman dopo che ottennero il permesso. Ricorda solo tre nomi di quei quattro: J. Swart, Swanepoell e Penton Ferreira.
Tullio, prima di accettarli, andò da “Boet”, che gli rispose di prenderseli.
C’era anche un motivo: egli voleva con sé Piero Nebiolo che proveniva dalla Legione Straniera e aveva combattuto nel Vietnam francese e nella battaglia di Dien Bien Phu, dove la Francia perse la sua colonia.
Tullio tergiversava, pure perché Nebiolo – un guerriero esperto e coraggioso – non voleva andare con un “pazzo” sparatore impulsivo, ed anche perché non sapeva parlare e capire la lingua inglese.
Torniamo ora al caso della vecchia e del ragazzo poliomielitico, che il mercenario Greyling voleva sgozzare.
Mentre la donna girava intorno lo sguardo terrorizzato, con gli occhi fuori dalle orbite, il ragazzo implorava in francese: “Il faut pas me tué, il faut pas me tué… Non uccidetemi, non uccidetemi”.
Tullio rispose al ragazzo: “No, nessuno ti ucciderà!”.
Poi, rivolto a Greyling, il mezzosangue, disse: “Come ti permetti di fare queste cose? Che razza di soldato sei? Non ti vergogni? Se ti azzardi a fare loro del male, ti ammazzo con le mie mani”.
Mentre diceva a Greyling queste minacce, anche gli stessi commilitoni esprimevano il loro malumore per la crudeltà di quel mezzosangue sudafricano.
Poi andò dal comandante Schoeman.
Anche in questa occasione, come faceva sempre, Tullio tolse la sicura alla pistola e andò incontro a “Boet” Schoeman.
“Senti, “Boet”, c’è là quel tuo mezzosangue, quel Greyling, che vuole tagliare la gola a quella vecchia e a quel ragazzo poliomielitico”.
Fissando “Boet” negli occhi, gli disse. “Se qualcuno farà del male a quei due, a quella vecchia e all’altro che è poliomielitico, è la volta che mi arrabbio sul serio. E’ chiaro, “Boet”?”
Schoeman si mise a ridere e avvenne il miracolo. “Zorba, non ti preoccupare, nessuno farà del male a quei due. E poi è domenica… Adesso ci penso io – promise.
Boet si avvicino a Greyling e gli intimò: “Non azzardarti a toccare questi due! Okay?”
Greyling non tentò neanche di aprire la bocca.
Tacque e si allontanò a testa bassa.
Sapeva bene che se si fosse azzardato a replicare, pure con lo sguardo, il capitano Schoeman avrebbe estratto fulmineo la pistola e gli avrebbe sparato in bocca. Era una cosa risaputa.
La prima cosa che dicevano ai nuovi arrivati era: “Obbedisci sempre al tenente “Boet” Schoeman e non replicare mai. Ne va della tua vita”…
Intanto, il ragazzo, che tremava e batteva i denti dal terrore, aveva avuto un attacco di diarrea, che gli colava dai calzoncini lungo le gambe… Schoeman ordinò ad un katanghese di caricarsi il ragazzo sulle spalle
e di metterlo al sicuro, insieme alla vecchia in un capanna fuori del villaggio.
Il katanghese non voleva caricarsi sulle spalle il ragazzo per non sporcarsi la schiena, ma uno sguardo di Schoeman gli fece capire di obbedire senza replicare, per non finire ammazzato.
Era pure certo che Schoeman non avrebbe chiesto al tenente Mutambala, che comandava i katanghesi, il permesso di sparare a quel suo soldato katanghese: avrebbe estratto dalla fondina la pistola e fatto fuoco.
Nella jungla i comportamenti sono diversi da quelli delle truppe regolari, burocratiche e rispettose della gerarchia.
Nella giungla, o si è rispettati e temuti, o si rischia la vita con il “fuoco amico” alla prima occasione.
Mentre il katanghese trasportava il ragazzo poliomielitico verso una capanna, la vecchia si appoggiava al braccio di Tullio, dicendogli “pole, pole”, ossia di camminare lentamente.
Tullio sentiva il contatto della mano della vecchia sul suo braccio, provando nel cuore una strana, umana dolcezza…
Schoeman fece portare nella capanna pure dei viveri per la vecchia e per il ragazzo.
Poi, i katanghesi ebbero l’ordine di bruciare il villaggio.
Essi, felici, lo fecero così bene che dopo poco Tullio e i mercenari si trovarono circondati dalle fiamme, rischiando di finire arrosto.
Si salvarono bagnandosi nel ruscello e correndo lungo il suo letto fino ad uscire dal villaggio.
Si accorsero, poi, che pure la capanna in cui erano la vecchia e il ragazzo aveva preso fuoco e i due rischiavano di morire tra le fiamme. “Boet” Schoeman dette ordine di tirarli fuori.
Due katanghesi si bagnarono i vestiti ed entrarono nella capanna in fiamme, traendo fuori la vecchia e il ragazzo, senza neanche una bruciatura.
Li portarono lontano dalla capanna in fiamme e li misero in un luogo sicuro. I viveri erano andati bruciati con la capanna, ma lì c’era un campo di manioca e i due non sarebbero morti di fame.
Il maialino e le zanne d’elefante
In questa vicenda sono da menzionare due episodi degni di essere immortalati in una sequenza da fiction, tanto sono al di fuori del comune attacco guerrigliero.
Il capitano Peter Ross-Smith aveva appena dato l’ordine del fuoco allo schieramento del tenente Tullio Moneta, dove c’erano anche alcuni degli “wildcat” di Schoeman, quando uno di questi, in sella ad una bicicletta arrugginita e con le ruote prive di tubolari, trovata evidentemente un attimo prima nella savana, si gettò a capofitto, pedalando verso il villaggio.
“Fermi, fermi tutti, cessate il fuoco! – gridò Ross-Smith – Ma chi è quel pazzo?”
Qualcuno disse: “Ma… ma quello è Sporos… E’ impazzito!”
Quando il mercenario in sella alla bicicletta fu fuori della linea di tiro, il fuoco ricominciò.
Sporos era un greco sempre taciturno, che aveva cominciato come mercenario nella precedente ribellione del Katanga del 1961, con Ciombè. Sporos conosceva personalmente Ciombè. Tullio aveva avuto occasione di vedere con quale cordialità quel grande politico congolese parlava con Sporos.
Intanto la battaglia era finita, con i Simba morti, o fuggiti. Tutti pensavano che pure Sporos fosse morto…
Mentre scendevano per occupare il villaggio, il greco riapparve, ansante, mentre risaliva la china.
Quando il capitano Ross-Smith lo vide gli gridò: “Ma che cazzo hai fatto?”
Sporos, raggiante, gli rispose: “Pork!…” indicandogli un maialino scuro, che portava sulle spalle, morto.
L’altro fatto fu cosa avvenne con le zanne d’elefante accatastate nella casetta di mattoni. Sarebbe stato un affare ricchissimo se le avessero trasportate a Baraka come preda di guerra. Purtroppo, i camion della spedizione erano distanti parecchie miglia da quel villaggio. Le zanne sarebbero state quindi bruciate con i lanciafiamme.
Piero Nebiolo chiese a Tullio di mettergli alcuni portatori congolesi a disposizione per portarsi via alcune di quelle zanne. Tullio rispose che i portatori servivano per trasportare le munizioni e i viveri, molto più importanti di quelle zanne d’avorio. Allora Nebiolo, prima che venisse bruciato il deposito, prese tre zanne di elefante non molto pesanti e se le caricò sulle spalle.
Dopo qualche centinaio di metri, Nebiolo abbandonò una zanna di elefante, quella più pesante…
Dopo un’altra mezzora di cammino veloce nel sentiero della savana, ne buttò un’altra…
Dopo un altro chilometro Nebiolo abbandonò la terza zanna, la più piccola che gli era rimasta: aveva le lacrime agli occhi…
Testimonianza raccolta da Giorgio Rapanelli