Ippolito Edmondo Ferrario
Chi ha sempre vissuto in un paese, dividendone le gioie ed i dolori, immergendosi nelle tradizioni e nelle ataviche usanze, piano piano giunge anche a condividerne la tragedia dello spopolamento. Ad ogni casa o addirittura ad ogni strada che si chiude, corrisponde sempre un tuffo al cuore, un senso di vertigine che spesso stordisce. Le abitudini degli antichi vanno via via scomparendo, i sapori e le sensazioni più genuine appartengono ormai al bagaglio storico e culturale.
Triora, antica podesteria genovese, è uno degli esempi più eclatanti del fenomeno dell’abbandono della montagna. Importantissima nel tredicesimo secolo, quando poteva permettersi di inviare alla celebre battaglia della Meloria ben 250 balestrieri, quando era in grado di ribellarsi ai soprusi dei podestà, magari distruggendo le cinque fortezze per protestare contro i continui aggravi fiscali, nel sedicesimo secolo ha conosciuto il periodo di maggiore splendore.
Tra le sue mura impenetrabili nacquero letterati, notai, condottieri, artisti, intagliatori, lasciando nelle varie località della Liguria autentici saggi di bravura. Solo sul finire di quell’incredibile epopea, quando vi si contavano ben millecento fuochi, un tragico fatto macchiò le magnifiche abitudini di quell’indomito popolo: la caccia alle streghe.
Oltre duecento donne, ma anche un uomo, vennero accusate delle colpe più immonde ed esacrabili, compresa quella dell’infanticidio. La leggenda ci ha consegnato l’immagine dei bimbi in fasce palleggiati fra le fattucchiere locali e quelle della vicina Andagna, ma gli atti, conservati nell’Archivio di Stato di Genova, ci documentano una cruda realtà, con le accuse più incredibili.
Le torture e gli estenuanti interrogatori degli inquisitori, le condanne a morte comminate dal commissario Scribani, non condotte a termine solo per contrasti civili e religiosi, hanno segnato indelebilmente quell’epoca, dando inizio ad una progressiva decadenza.
Solo da quindici anni si è riusciti a sdrammatizzare la questione stregonesca, dedicando alle povere donne incriminate, convegni, studi, pubblicazioni, spettacoli televisivi e cinematografici, giungendo ad una ovvia pubblica assoluzione, proclamata nella Piazza della Collegiata nell’Agosto del 2001.
In quell’occasione, davanti ad oltre un migliaio di spettatori partecipi, le streghe, da Franchetta Borelli a Isotta Stella, da Gioannettina Ausenda a Francheschina Chiocheto, sono sfilate, le torce in mano, in una sorta di processione liberatoria, mentre risuonavano grida di condanna verso gli implacabili ed inumani accusatori.
Triora ha saputo trarre utili insegnamenti, ed indubbi vantaggi, dalle bagiue, ovvero dalle streghe, giungendo a considerarle delle martiri, in nome di interessi occulti e beghe innominabili e dedicando loro un’apposita sezione del Museo Etnografico.
Chi giunge da lontano, chi si immerge nel silenzio del paese, fra i suoi carruggi e le aie deserte, prova altre sensazioni; può trattarsi a volte di smarrimento, di desolazione oppure, in antitesi, di pace e appagamento.
Alla schiera di costoro appartiene Ippolito Edmondo Ferrario, che percorrendo le vie disabitate, inerpicandosi verso i resti delle antiche fortezze, ha saputo trovare se stesso, evadendo dal caos cittadino, riscoprendo anche antiche tradizioni, per la massima parte oggi scomparse.
I suoi racconti, impregnati di autentica poesia, hanno come filo conduttore non solo le streghe, ma anche l’incredibile popolo dei Celti, di cui sopravvivono resti di riti celebratori e propiziatori sulle vicine montagne, come alla Ciotta di San Lorenzo. E’ commovente quando racconta l’usanza della vigilia di Ognissanti, oggi purtroppo americanizzata in Halloween con grottesche celebrazioni, quando si accendevano i lumi sui balconi o sugli usci delle abitazioni, si cucinava lo zemin per i poveri oppure si rifacevano i letti con candide lenzuola, affinché i morti potessero tornare a riposare nelle loro dimore.
I sacerdoti druidi ed i bardi cantori di quel popolo improvvisamente scomparso sono i compagni delle sue solitarie passeggiate verso il cimitero o verso la Cabotina, amici che a volte immagina di incontrare tra le radure o al limitare dei boschi. Ippolito ama non solo Triora, ma anche l’entroterra ligure, narrando storie o leggende di posti come Ceriana, Bajardo o Pantasina.
Proprio all’eremita di codesta località è ispirato l’ultimo racconto, che lo scrittore ha voluto dedicare a chi scrive queste poche righe, considerandolo forse come uno degli ultimi montanari, perdutamente innamorati delle loro terre che, nonostante tutto, non si rassegnano all’ineluttabilità delle cose, alla quotidiana tragedia dei paesi che stanno morendo tra la generale indifferenza.
Lo ringrazio e assieme a me gli dice grazie anche la gente di Triora, al quale il libro intero è dedicato, con la speranza che l’utopia di un domani migliore possa un giorno trasformarsi incredibilmente in una splendida realtà.
Sando Oddo