Accadde Domani. 25 novembre 1981. Il tentato golpe alle isole Seychelles nella testimonianza di Tullio Moneta (Prima parte)

Accadde Domani. 25 novembre 1981. Il tentato golpe alle isole Seychelles nella testimonianza di Tullio Moneta (Prima parte)

ACCADDE DOMANI. 25 NOVEMBRE 1981. IL TENTATO GOLPE ALLE ISOLE SEYCHELLES NELLA TESTIMONIANZA DI TULLIO MONETA (PRIMA PARTE)

Evoluzione del golpe

Terminata la lavorazione del film I quattro dell’Oca Selvaggia, iniziò l’organizzazione del golpe.  Tullio e William Dunlop Paul, il proprietario di una catena di palestre ed esperto di karate ed arti marziali, di cui si è detto sopra, che però mai aveva combattuto,  si misero in moto per reclutare i mercenari che conoscevano fin dal Congo. Nel frattempo i due furono contattati dal comandante George Schroeder per organizzare insieme a lui un piano, che ai due sembrò surreale e che, quindi, non accettarono. Ma la vera ragione per cui non accettarono era che non avrebbero abbandonato Mike Hoare, che intanto teneva contatti con diplomazie e servizi segreti occidentali, e con il governo delle Seychelles in esilio. Hoare fece vedere una volta una lettera inviatagli dagli ex-ministri, che lo invitavano a compiere il golpe. Intanto l’operazione andava avanti con il reclutamento di due capitani, tre tenenti e vari graduati che erano nel Quinto Commando in Congo. Furono reclutati validi combattenti come Barney Carey, Geremiah Puren, pilota di piccoli aerei nella campagna del Congo, Peter Rohein, Kurt Priefert, Desmond Jurgen Botes, detto “Des Botes”, Charley William Duchi, detto “Charley Dukes”, Roger England, ed altri.

Tullio reclutò anche 20 uomini del Recce Commando che come abbiamo detto era un corpo speciale formato da patrioti volontari, molti dei quali provenivano da famiglie benestanti, da dirigenti amministrativi e dalla magistratura, e perfino da ex-ministri sudafricani, che venivano addestrati fino a perdere la propria personalità.

Ad esempio, dopo aver fatto 40 chilometri con zaino ed armamento, senza mangiare e bere acqua, in un ambiente piuttosto arido, tipo quello che appare nel film I quattro dell’Oca Selvaggia, girato proprio in quei  luoghi, gli aspiranti commando del Recce  giungevano ad un baobab, sotto cui stava seduto un istruttore che beveva una Coca Cola ghiacciata. Per gli affamati e assetati c’era solo del pane imbevuto di alcol denaturato e dell’acqua mescolata ad urina. L’addestratore, indicando un frigorifero portatile pieno di bevande ghiacciate, chiedeva: «Chi vuol bere una Coca Cola?». Chi si avvicinava per bere la bibita fresca veniva scartato in quanto non era adatto a fare parte della élite del Recce Commando. Questo era ciò che il colonnello del Recce  Van der Spy raccontò a Tullio.

Nel Recce esistevano molte specializzazioni. Ad esempio c’era un corso avanzato di paracadutismo chiamato HALOHigh Altitude Low Open, in cui ci si gettava da 30.000 piedi, circa 9.000 metri, con il respiratore. E ancora si insegnavano tecniche di sopravvivenza e addestramento a seguire le tracce sul terreno, apprese dai boscimani, infiltrazione in territorio nemico con marce, paracadutismo e dal mare, fusione col nemico, addestramento con le armi in uso in tutti i Paesi del mondo, (quindi armi pesanti come contraerea e artiglieria), cecchinaggio. C’erano poi corsi sugli esplosivi e sulle mine antiuomo e su come disinnescarle, alpinismo, addestramento su terreni diversi e in diversi climi. E ciò durava per mesi… Il Recce Commando era un’unità di forza permanente. All’epoca il Sudafrica era circondato da nemici e l’ANC (African National Congress) di quegli anni era ben diverso da ciò che è oggi. All’epoca esisteva una branca armata dell’ANC, l’Umkonto we siswe, la “lancia della nazione”, di cui Nelson Mandela era il presidente. Erano marxisti e compivano sabotaggi e azioni di terrorismo  con vittime in bar, in ristoranti, nelle chiese. Esisteva l’infiltrazione da paesi confinanti come Mozambico, Botswana e Swaziland di forze comuniste (cubani, sovietici, tedeschi orientali, cinesi) con il compito di addestrare i loro nemici. I patrioti del Recce hanno combattuto per il loro Paese e per la libertà religiosa. Paddy, infatti, era ed è un cattolico praticante. 

Tullio non avrebbe mai fatto parte di questo corpo speciale, che non “pensava”, ma che “ubbidiva” ciecamente agli ordini. I mercenari dovevano invece pensare velocemente con la propria mente e decidere velocemente il da farsi.

Il sospetto

Avvennero però cose che misero in sospetto Tullio. Intanto egli non capiva perché al golpedovevano partecipare membri dei servizi segreti come Martin Dolinchek che era entrato nel 1978 portandosi dietro pure Peter Duffy, il fotoreporter che seguì la campagna dei mercenari in Congo standosene al sicuro nel campo base. Tullio considerava Dolinchek e Duffy dei “venditori di fumo”.    

Facevano parte pure agenti dei servizi come Kenneth John Kelly, detto “Blue Kelly,  unaustraliano, e Jan Olav Sydow, uno svedese che conosceva l’inglese e il russo.

Tipi “oscuri e inaffidabili” come quelli, sospettati di essere killer professionisti: che ci stavano a fare in mezzo a militari organizzati, si chiedeva Tullio?   

Come mai, fallito il coup d’état, il colpo di Stato, tutti i mercenari catturati furono condannati a morte dal Regime di René, salvo Dolinchek? Come mai quest’ultimo, appena iniziato il combattimento, scomparve per mettersi in salvo in un hotel a bere birra?

Fonti confidenziali del  Recce assicurano che Kevin Beck odiava Dolinchek, Duffy e Kelly, come del resto quasi tutti i Recce Commando.

Tullio aveva cercato, prima di partire per le Seychelles, di conoscere il pensiero di due dei migliori combattenti, Pieter Doorewaard e Paddy Henrick, esperti group leaders del Recce, sulle cose che lo insospettivano, soprattutto per gli accordi iniziali che venivano disattesi, facendo ritirare dal complotto ottimi ufficiali. Essi rispondevano che in questo genere di azioni poteva capitare di dover decidere di tagliare alcune cose, impossibili da realizzare. Comunque, l’azione doveva andare in porto, pur mancando  le armi pesanti trasportate con uno yacht

Tullio si chiedeva pure se c’era forse l’ordine di assassinare l’usurpatore René ed alcuni ministri chiave. Tullio fu pubblicamente categorico, perfino con Mike Hoare presente: «Noi siamo dei soldati combattenti, non degli assassini. Il lavoro sporco non lo facciamo… Né permetterò che lo facciano altri. Noi saremo nelle Seychelles come soldati dell’Occidente solo per abbattere il regime filocomunista di René e ridare il potere al presidente legittimo Jimmy Mancham. Stop. Se poi, dopo esserci ritirati dalle Seychelles e dato il potere in mano agli uomini della Resistenza, vorranno attuare le vendette sarà affare loro. E’ chiaro?»

Lo allarmava non ultimo  il fatto che era stato annullato lo yacht che avrebbe dovuto trasportare alle Seychelles le armi pesanti, mitragliatrici e bazooka, già nascoste in precedenza nella villa di Hoare. Tullio sapeva che l’esercito delle Seychelles aveva autoblindo e mezzi pesanti, che non si sarebbero potuti neutralizzare con i mitragliatori leggeri AK47, in dotazione. Non c’era neanche più il C 130 per il trasporto delle armi e dei mercenari. In un incontro di Tullio e di Dunlop Paul con  il maggiore Willie Ward del RecceCommando notarono che quest’ultimo faceva delle difficoltà e alla fine si ritirò… Si era ritirato anche un certo Bryan Walls del Recce Commando che nella vita civile faceva il gioielliere, ma era una professione di copertura. Pure quattro ufficiali del Recce si erano ritirati… La cosa cominciava a puzzare all’olfatto sospettoso di Tullio.

Però Mike Hoare giustificava tutto ciò che accadeva come cose che erano state decise dall’alto. Pure alcuni ufficiali dei mercenari, sentendo puzza di bruciato, si ritirarono. Tullio rimase nel commando per la fedeltà e per l’amicizia verso Hoare che aveva maturato in anni di collaborazione in Congo e in altre azioni. Non voleva che circolasse la voce che il maggiore Tullio Moneta aveva abbandonato il suo colonnello per timore di un esito negativo dell’azione.

C’era poi pure una parte di egoismo in questa decisione. Tullio si chiedeva: e se, invece, le cose fossero andate bene, come pronosticava Hoare e senza alcun spargimento di sangue, egli avrebbe perduto un’occasione d’oro per aumentare il proprio prestigio in quel mondo dove si preferisce morire piuttosto che fallire?

Comunque, per sminuire le defezioni, Hoare aveva messo Tullio sotto i riflettori del palcoscenico, dicendo pubblicamente in una riunione collettiva: «Finché ho gente come Tullio sto a posto. Voi potete andare pure via tutti.»

Giorgio Rapanelli, Ippolito Edmondo Ferrario, “Mercenario. Dal Congo alle Seychelles. La vera storia di Chifambausiku Tullio Moneta”, Edizioni Lo Scarabeo, Milano

Accadde domani. 28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup

Accadde domani. 28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup

28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup

Leleup era un volontario belga, ma nato in Congo. «Guy morì da eroe il 28 ottobre del 1967 durante le ultime fasi dell’assedio di Bukavu. Rimase a proteggere la ritirata dei suoi compagni e cadde prigioniero. Quando il colonello Schramme con altri uomini giunse in suo soccorso, Leleup, mentre era tenuto legato ad un albero, urlò a Scharamme avvisandolo dell’imminente imboscata e permettendogli di salvarsi. Leleup fu ucciso con un colpo di pistola in fronte. Venne poi decapitato e la sua testa infilzata su una baionetta per essere portata come trofeo dai soldati congolesi dell’ANC. Questa è la vera storia della morte di Guy Leleup del Para Groupe Cobra».

Così lo ricorda in alcuni significativi passaggi il colonello Jeanne Scharamme nel suo libro di memorie Il Battaglione Léopard. Ricordi di un africano bianco: «Di tutti i nuovi provenienti dalla 6a brigata quello che mi impressionò maggiormente fu il maresciallo Guy Leleup. Era un giovane idealista che conosceva perfettamente gli indigeni e ne parlava correttamente la lingua. Solitario per natura, era mal compreso dal suo comandante, il maggiore Noddyn. Ragazzi del genere erano l’opposto di ciò che normalmente viene chiamato un “mercenario”. Non poteva andar assolutamente d’accordo con Bob Denard e il suo lavoro non era mai stato apprezzato; ma è risaputo che i caratteri energici e le nature generose si rivelano nelle avversità (…)». Compresi subito che la morte di Leleup era un fatto estremamente grave: perdevo una delle posizioni-chiave ma anche uno dei miei migliori ufficiali, un vero simbolo di ciò che stavamo tentando di salvare in Congo: la fratellanza nelle armi tra bianchi e neri».

Tratto da: Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Maktub. Congo-Yemen 1965/1969, Ritter Edizioni.

 

 

 

 

Italo Zambon. Il paracadutista della Folgore morto durante l’assedio di Bukavu nel 1967

Italo Zambon. Il paracadutista della Folgore morto durante l’assedio di Bukavu nel 1967

Italo Zambon è stato uno dei volontari italiani più conosciuti e apprezzati. Veneziano, già parà della Folgore, operò prima nella zona di Paulis e successivamente, alla fine del marzo 1965, insieme al volontario Jean-Claude Laponterique (proveniente dal 11e Régiment Parachutiste de Choc di stanza a Calvi) fu aggregato al 1er CHOC guidato da Bob Denard; qui venne inserito nel gruppo comandato da Roger Bruni e denominato Charly One. L’altro solo italiano presente era Carlo Chiesa, proveniente dai ranghi della Legione Straniera. Zambon si guadagnò il soprannome di “orecchiofino” per la sua capacità in pattuglia di percepire i movimenti dei ribelli ed evitare di cadere nelle loro imboscate. Prima di giungere in Congo aveva viaggiato moltissimo, spesso con mezzi di fortuna, raggiungendo il Nord Africa e attraversando il deserto con le carovane. Zambon troverà la morte durante le ultime fasi dell’assedio della città di Bukavu il 29 ottobre 1967, durante uno degli attacchi più violenti condotti dalle truppe dell’ANC. Nel suo libro Il battaglione Léopard Jean Schramme ricorda le ultime concitate fasi dell’assedio della città: «Baka non avrebbe potuto essere raggiunta. Al calare della notte la 4a compagnia sarebbe stata obbligata a sganciarsi verso la posizione Venus. Anche il mio commando fu obbligato a indietreggiare e recuperammo le mitragliatrici e il cannone delle jeeps. Al mio fianco, Italo Zambon fu letteralmente tagliato in due da una raffica di mitragliatrice pesante. Era il migliore dei nostri volontari italiani». E ancora il volontario francese Jean-Claude Laponterique lo ricorda con affetto: «In combattimento Italo era una persona di cui ti potevi fidare. Nei momenti liberi era estremamente simpatico e faceva ridere per quel suo strano accento con cui parlava il francese. Era sempre pronto ad aiutare le persone che abbiamo salvato dai ribelli. Quando mi sono congedato e ci siamo ritrovati insieme a Parigi mi ha chiesto se fossi disposto a ritornare in Congo. Io gli dissi di no, per me l’avventura era terminata. Ormai i ribelli erano stati debellati ad eccezione di poche zone residue. Lui partì nuovamente. Tempo dopo venni a sapere della sua fine. Sono certo che è morto in quella terra che amava più di tutto». 

(Foto J.C.L.)

 

Il maresciallo Enzo Varani

Il maresciallo Enzo Varani

Pubblico qui di seguito, con immenso piacere,  il messaggio giuntomi sabato 17 ottobre 2020 dal nipote di Enzo Varani che ha acquistato per caso il libro “Maktub Congo-Yemen 1965/1969”. Le sue parole ripagano Robert ed il sottoscritto di tutto l’impegno speso nella stesura del libro.

 

A volte gli avvenimenti sembrano accadere per caso, ma il caso non è mai causale, ti aspetta o si fa aspettare e prima o poi si presenta e provoca emozioni. Ho visto un post di Ippolito Edmondo Ferrario sulla presentazione di un suo nuovo libro “Maktub”, un insieme di racconti e fotografie di un posto lontano che tra il 1960 e il 1965 ha attraversato una grande instabilità politica con un susseguirsi di rivolte armate, il Congo. L’istinto mi ha portato ad acquistarlo, mia madre lo sfoglia e ad un certo punto si emoziona e urla “Papà” dicendo di averlo riconosciuto dalla posa. Come mio nonno ci sia finito e perché , non sono mai riuscito a farmelo spiegare da nessuno. Mia nonna mi racconta che lo ha fatto per il suo grande spirito avventuriero (Legionario in Indocina, minatore in Belgio, mercenario in Congo e poi chissà dove…). Nemmeno due figlie piccole e un figlio in arrivo riuscirono a desisterlo dalla sete di avventura  e dai soldi “facili” e chissà cos’altro. Cit”…Pirati all’arrembaggio in un mare ostile di incomprensioni, che necessita della loro presenza, ma li disprezza, un mare di opportunismi, di accordi al vertice, di materialismo d’ogni colore, di specioso ed interessato perbenismo. Pirati del XX secolo, che difendono la loro filibusta con la sciabola in una mano, mentre con l’altra ghermiscono una bottiglia di Rhum (o di una Primus in questo caso) e combattono irridendo al nemico, incuranti di tutto e di tutti”. scrisse Nony. Non so se mio nonno si sentisse così, un pirata in cerca del tesoro, ma ho capito che di quel “tesoro” una parte non tornò con lui  mentre con l’altra, appena tornato in Italia,  comprò una casa per la sua famiglia ed aprì un’osteria diventata poi ristorante. In fondo forse era questo il “tesoro” che cercava. Da lì a poco, dopo tanto rumore, purtroppo, se ne andò in una notte, in silenzio, quando anche il cuore decise di starsene in silenzioso giusto il tempo di riuscire a compiere qualche battito in una vita “normale e tranquilla” che forse in fondo non era fatta per lui, ma provando a darla a chi voleva bene. Ciao nonno, salutami zio.

In ricordo del Maresciallo Enzo Varani

Ascoli Piceno 15/02/1930

Ascoli Piceno 5/2/1978

Qui sotto la foto di gruppo che ritrae Varani insieme ai suoi commilitoni.

SUCRAF. Da sinistra a destra: il Maresciallo Varani (marchigiano, dopo il Congo fece fortuna vendendo pappagalli in giro per l’Europa ad appassionati di animali esotici), Girolamo “Nony” Simonetti, l’italo-argentino Ciccodicola (una volta tornato a casa uccise la moglie a martellate), Benigno Murgia (originario di Carbonia, dopo aver lavorato per un periodo in una miniera di carbone in Belgio si era arruolato tra le fila dei volontari in Congo), Robert Müller. Alla SUCRAF i volontari Varani, Ciccodicola e Murgia, comandanti dal maggiore polacco Topor, erano di stanza a protezione dello stabilimento.

 

Un eroe italiano dimenticato. Pier Giorgio Norbiato

Un eroe italiano dimenticato. Pier Giorgio Norbiato

Pier Giorgio Norbiato, conosciuto meglio come Giorgio Norbiato, è stato tra i migliori volontari italiani presenti in Congo.

Nato ad Aosta, era diventato incursore della Marina Militare nella quale aveva prestato servizio per sei anni.

Dopo il congedo operò come sommozzatore per una società italiana specializzata nel recupero di navi affondate.

Durante gli anni della crisi congolese si arruolò nel 6o BCE e si mise in luce per le doti combattive guadagnandosi anche il soprannome di “Le fasciste” per le simpatie politiche.

Si distinse in alcune operazioni anfibie condotti sui fiumi, terre- no evidentemente ideale per l’ex incursore di marina.

L’ultima di queste condotte in Congo fu quella denominata Alfa e coordinata da Bob Denard, con l’obiettivo di liberare dalla prigionia sull’isola fluviale di Boula Beba il leader Godefroid Munongo.

L’operazione, che doveva essere notturna, per una serie di ritardi avvenne in pieno giorno e fallì. Caduta in un’imboscata, la squadra di volontari si salvò grazie a Norbiato.

La sua storia assomiglia a quella di altri volontari stranieri, se non fosse che dopo il Congo Giorgio partì per un nuovo ingaggio, questa volta nella regione del Biafra in lotta per l’indipendenza dal governo centrale nigeriano.

Giunto sul posto gli fu comunicato che non sarebbe stato pagato.

Lui decise di rimanere lo stesso e di combattere agli ordini del comandante tedesco Rolf Steiner insieme ad altri quattro volontari europei.

Grazie all’esperienza maturata negli incursori italiani trasformò alcuni modesti Chris-Craft in una piccola flottiglia armata con cui riuscì ad assaltare una nave nemica carica di jeep Land Rover e viveri, difesa a sua volta da motovedette armate.

Nel Biafra Norbiato trovò la morte. Ferito e senza possibilità di essere evacuato, si piazzò in una buca con la propria MAG per coprire la ritirata dei suoi, sparando fino all’ultimo colpo e sacrificandosi.

Giorni dopo lo stesso comandante Steiner organizzò con pochi uomini una sanguinosa incursione all’aeroporto di Enugu.

La notizia della sua morte giunse in Italia grazie allo scrittore e giornalista Goffredo Parise, che si assunse l’impegno di portare alla madre di Norbiato i pochi effetti personali del figlio morto.

La sua fama di soldato coraggioso e generoso persistette a lungo nel paese africano. Il suo corpo non è mai stato riportato in Italia.

E sempre nello stesso anno il giornalista Renzo Allegri gli dedicò un lungo servizio sulle pagine del settimanale «Gente».

Così Girolamo Simonetti lo ricorda nel suo libro Il bottino del mercenario:

«Camerata Norbiato, ucciso nel Biafra qualche anno dopo nella difesa di Port Harcourt. Abbandonato dai negri in fuga e rimasto, solo, a difendere la posizione fino all’ultima cartuccia. Non avrebbe potuto fare altra fine e forse è stato meglio così. Coerente con sé stesso, fino all’ultimo. La vita intesa come una singolare emozionante partita col desti- no. Norbiato, che dopo aver vinto delle fortune a poker, in una sola puntata gioca tutto sulla roulette di St. Vincent. Tanto c’è già pronto un altro contratto mercenario… Ha giocato l’ultima partita a modo suo. E noi, ancora qui a rimestare le carte…».

Nel 1974 lo scrittore inglese Frederick Forsyth pubblicò il best-seller I mastini della guerra, frutto della sua permanenza in Biafra nelle vesti di giornalista; nella dedica del libro ricordò così Norbiato e altri volontari presenti:

«A Giorgio, a Christian e a Schlee / A Big Marc e a Black Johnny / A tutti gli altri nelle tombe anonime. / Perlomeno tentammo».

Tratto da: Maktub Congo-Yemen 1965/1969 di R. Muller e I. E. Ferrario, Edizioni Ritter