15 giugno 1906. Nasce Léon Degrelle

15 giugno 1906. Nasce Léon Degrelle

15 giugno 1906. Nasce Léon Degrelle

Il 15 giugno del 1906, presso il borgo di Bouillon nelle Ardenne belghe, nasceva Léon Joseph Marie Ignace Degrelle, il leggendario soldato belga che avrebbe infiammato i cuori di generazioni di neofascisti. Così Giancarlo Rognoni ne ricorda il primo incontro:

L’incontro con Degrelle mi aprì un mondo sconosciuto. Di lui ho molti ricordi. A cominciare da quando suonai alla sua porta e lui mi aprì dicendomi: «Bienvenu chez nous, mon camarade». L’accoglienza da parte sua e della moglie Jeanne Brevet fu davvero impeccabile e calorosa. Da quel momento iniziò una lunga frequentazione. A dispetto di quello che uno si sarebbe potuto aspettare, Degrelle non era un uomo che viveva per raccontare le sue gesta, anzi. Quel genere di racconti li condivideva solo con i suoi amici più intimi. Questo lo posso affermare dato che iniziai a vederlo quasi settimanalmente. Innumerevoli volte andai a casa sua ed ebbi modo di ascoltarlo e di confrontarmi con lui. Ciò che mi colpì fin da subito fu il fatto di non essere ancorato al suo passato; non era nel suo temperamento rimanere legato ad un periodo specifico della sua vita.

Ebbi fin da subito l’impressione di un Degrelle che viveva l’attualità, che seguiva da vicino le vicende internazionali con grande occhio critico. Conobbi quindi non solo il Degrelle pluridecorato combattente delle Waffen SS, ma il Degrelle politico, scrittore, il Degrelle filoarabo, l’estimatore delle arti e della storia. Fu grazie a lui che venni introdotto a quel mondo di personalità, per lo più francofone, molto distanti dal mondo italiano da cui provenivo.
Mi trovai perfettamente a mio agio con Degrelle, anche per una certa sintonia nella visione della vita, pur essendo maturata da esperienze molto diverse.

Tratto da Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni.

 

Accadde Domani. 5 giugno 1976. Lo scioglimento di Avanguardia Nazionale e la nascita dell’Avanguardia Nazionale clandestina

Accadde Domani. 5 giugno 1976. Lo scioglimento di Avanguardia Nazionale e la nascita dell’Avanguardia Nazionale clandestina

5 giugno 1976. Lo scioglimento di Avanguardia Nazionale e la nascita dell’Avanguardia Nazionale clandestina

Lo scioglimento di Avanguardia Nazionale risale ufficialmente al 5 giugno del 1976, quando il tribunale di Roma dichiarò illegale il movimento accusando e processando i sessantaquattro imputati alla sbarra per diversi reati, tra cui ricostituzione del partito fascista, atti di violenza politica e terrorismo. Il relativo processo iniziò l’11 dicembre del 1975, dopo che il 25 novembre dello stesso anno era scattata una maxioperazione in tutta Italia che aveva portato all’identificazione e all’arresto di numerosi tra dirigenti e militanti. Tecnicamente, Avanguardia Nazionale avrebbe dovuto cessare di esistere. A Milano dunque rimanevamo in pochi e nell’ombra a tenere in vita il movimento costretto alla clandestinità. Nel resto d’Italia, ma a Roma in particolare, nascevano sempre più iniziative tanto spontanee quanto dannose perché prive di un disegno politico che ne tracciasse la via.

Era una situazione delicata. Per me proseguire la lotta era una necessità imprescindibile. L’avere poi una vita parallela da gestire mi garantiva al contempo anche non poche emozioni. Questa doppia identità mi faceva sentire vivo…Chi invece, in Avanguardia, all’epoca era magari già sposato o aveva addirittura figli, sentiva tutto il peso delle responsabilità e delle azioni che si facevano.

A quel punto, nella mia ottica di soldato politico, le rapine divennero l’unica via possibile per finanziare il movimento.Quando ne parlai con Ballan ricevetti subito una risposta negativa. Mi disse che non potevo pretendere di cambiare e migliorare il mondo passando attraverso azioni delittuose. Non potevo biasimarlo, ma le contingenze in cui ci eravamo venuti a trovare mi suggerivano di non arrendermi.  Accusavo anche stanchezza oltre che rabbia per quella situazione di difficoltà che ci affliggeva. Non vedevo spiragli. Ero consapevole che la mia posizione contravveniva allo spirito originario che aveva sempre animato il movimento, ovvero quello di frenare determinati atteggiamenti nei giovani più irruenti, di non cadere vittime di provocazioni. Lo Stato ci voleva in carcere, i compagni non accennavano ad abbassare il tiro e tra di noi le armi continuavano a girare. Non era più solo questione di detenerle per difenderci, per una semplice questione di sopravvivenza. Io volevo andare oltre.

I miei progetti però non prevedevano un uso delle armi fine a sé stesso come è accaduto con lo spontaneismo dei Nar. Di fronte al “no” di Ballan mi imposi: che a lui piacesse o no, io avrei formato un nucleo di ragazzi per procedere con le rapine e realizzare un movimento rivoluzionario, o perlomeno tentare di farlo… Se non ci fossimo riusciti, ci saremmo accontentati di azioni di testimonianza.

Tratto da: Domenico “Mimmo” Magnetta, Ippolito Edmondo Ferrario, Una vita in Avanguardia Nazionale, Ritter Edizioni

 

Accadde Domani. 30 maggio 1974. Muore Giancarlo Esposti.

Accadde Domani. 30 maggio 1974. Muore Giancarlo Esposti.

30 maggio 1974. Muore Giancarlo Esposti.

Il 30 maggio a Pian del Rascino, in provincia di Rieti, viene ucciso Giancarlo Esposti in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Con lui vengono arrestati Alessandro D’Intino, Salvatore Umberto Vivirito (arrestato un giorno dopo in quanto non presente durante il conflitto a fuoco) e Alessandro Danieletti. La dinamica degli investigatori è la seguente: giunti i carabinieri e le guardie forestali sul posto, dove da qualche giorno sono accampati i neofascisti, i primi ingaggiano un conflitto a fuoco in cui Esposti muore. Gli altri camerati vengono arrestati. A centinaia di chilometri di distanza Cesare apprende della morte dell’amico che ormai non vedeva né sentiva da mesi. È sconvolto e con lui gli altri che hanno conosciuto Giancarlo. Un senso di desolazione e di rabbia serpeggia tra i ragazzi della piazza milanese. La sera dopo Cesare andrà a casa di Giancarlo per portare le proprie condoglianze alla famiglia. E mentre ancora si piange la morte di Giancarlo, sulla scena si insinua qualcosa di inquietante che è la prova della presenza di apparati dello stato che operano con precisi scopi. Da Brescia i giudici avevano divulgato tempo prima l’identikit di quello che sarebbe dovuto essere l’attentatore di piazza della Loggia: Giancarlo Esposti. I magistrati bresciani mettono in relazione i fatti di pian del Rascino con la strage di Brescia. Il gruppo di Esposti sarebbe il responsabile della strage, l’esplosivo trovato sulle alture di Rieti lo stesso utilizzato in piazza della Loggia. Peccato che ci sia un dettaglio fondamentale che smonta il teorema: quando Giancarlo viene ucciso porta una barba folta che si è fatto crescere da parecchio tempo, mentre il Giancarlo dell’identikit di Brescia è senza un filo di barba. Si è cercato quindi di “confezionare” a tavolino il colpevole della strage. Cesare vuole partecipare ai funerali dell’amico, ma non potrà farlo. Dalla perquisizione del cadavere di Esposti in una delle tasche viene rinvenuta una fototessera di Cesare che lo ritrae, sul retro della quale è riportato il suo nome e cognome. Un elemento che serve alle indagini per poter mettere in relazione il defunto Esposti con Ferri. Dopo l’ennesima perquisizione in casa sua, Cesare viene tradotto nel carcere di Brescia.

Tratto da: Susanna Dolci, Ippolito Edmondo Ferrario, Cesare Ferri. Genesi di un ribelle, Edizioni Settimo Sigillo

Accadde Domani. 28 maggio 1974. La strage di Brescia

Accadde Domani. 28 maggio 1974. La strage di Brescia

28 maggio 1974. La strage di Brescia

Il 28 maggio 1974 è stata indetta a Brescia una manifestazione voluta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. Si scende in piazza per manifestare contro la violenza fascista. La tensione in città è altissima. Quella mattina la piazza è piena, nonostante il cattivo tempo. In molti si riparano dalla pioggia stazionando sotto i portici. Si calcola che ci siano mille persone. Mentre sta parlando Franco Castrezzati, sindacalista metalmeccanico della Cisl, scoppia l’ordigno. Sono le 10.12 e la deflagrazione causa la morte di otto persone e un centinaio di feriti tra cui alcuni gravi. È il panico. Si tratta di una strage in piena regola non dissimile da quella del 1969 di piazza Fontana a Milano. Poco dopo la piazza viene fatta sgombrare, regna il caos, arrivano i soccorsi. I vigili del fuoco con gli idranti ripuliscono il luogo dell’attentato. La ragione ufficiale è legata alla scena che secondo i testimoni ha dell’apocalittico. L’anomalia di questo gesto è che certamente impedisce di fare dei rilievi ed elimina tracce utili alle indagini. La strage assume la matrice nera. C’è chi però sostiene che l’obbiettivo potessero essere i carabinieri presenti, vista la posizione dell’ordigno occultato in un cestino. Durante le manifestazioni in piazza della Loggia i militari prendono sempre la stessa posizione, quel giorno si spostano solo per il cattivo tempo. Il giorno della strage Cesare è all’università e quando torna a casa apprende la notizia di ciò che è successo a Brescia. Un funesto presentimento, che presto diventerà realtà, si fa strada tra i suoi pensieri. Questa strage darà la possibilità alle istituzioni per fare qualsiasi cosa pur di eliminare i camerati. E si pone anche delle domande: a chi addosseranno la colpa della strage? Le indagini quali direzione prenderanno? Chi è il colpevole? Questi interrogativi dilagano anche in San Babila tra i camerati il giorno stesso della strage. Tra di loro aleggia un sentimento di ansia e smarrimento.

Tratto da: Susanna Dolci, Ippolito Edmondo Ferrario, Cesare Ferri. Genesi di un ribelle, Edizioni Settimo Sigillo

 

 

 

Accadde Domani. 19 maggio 1977. L’ultima rapina di Umberto Vivirito

Accadde Domani. 19 maggio 1977. L’ultima rapina di Umberto Vivirito

19 maggio 1977. L’ultima rapina di Umberto Vivirito

L’impossibilità di avere visibilità, di poter disporre di spazi pubblici come gli altri per fare propaganda condizionò la mentalità di tutto un ambiente.La necessità di procurarsi armi e fondi per l’attività politica passò dunque attraverso le rapine. Si potevano trovare le armi rapinando un’armeria o rivolgendosi alla malavita, ma per farlo ci volevano soldi. Era un cane che si morde la coda.

Io stesso ebbi come dotazione personale una pistola che proveniva dalla rapina di un’armeria di Monza.

Quando loro due intrapresero queste operazioni, lo fecero senza un ritorno personale, ma sempre nell’ottica di un disegno politico, folle o utopistico che fosse.

Non erano delinquenti comuni e mai lo divennero. Rievocare oggi la cronaca di certi atti come le rapine da loro commesse in gioiellerie o armerie mette fortemente in imbarazzo anche a “destra”. Alcuni vorrebbero tralasciare determinati episodi reputandoli marginali o poco encomiabili. Io invece credo, andando certamente contro la pubblica morale di allora e di oggi, che negli anni ’70 non ci fosse altra soluzione.

Quando, il 19 maggio del 1977, a Milano, Umberto Vivirito fece l’ultima rapina che fu fatale a lui e al proprietario della gioielleria, era reduce da due anni di detenzione che non avevano fatto altro che esasperarlo. Anche qui, non si tratta di una giustificazione, ma di un fattore da tener presente. Umberto fu imprudente, avventato e sfortunato. Ciò che per me resta evidente, a distanza di più di quarant’anni, è il fatto che lui, Alessandro e altri aderirono senza risparmiarsi ad una causa e ne pagarono le conseguenze. Furono anni che stravolsero davvero le nostre esistenze e quelle di chi ci stava vicino.

Tratto da: Domenico “Mimmo” Magnetta, Ippolito Edmondo Ferrario, Una vita in Avanguardia Nazionale, Ritter Edizioni

 

 

 

 

Non chiamateli mercenari, ma soldati liberi (o pirati del XX Secolo)

Non chiamateli mercenari, ma soldati liberi (o pirati del XX Secolo)

Nove anni fa, con poca esperienza e molto entusiasmo, mi accostavo al mondo dei tanto vituperati “mercenari” che avevano combattuto in Congo negli anni Sessanta del secolo scorso. Qualche anno dopo, nel 2018, avrei avuto l’onore e la fortuna di raccogliere le memorie di uno di loro. Un racconto disincantato, intenso e sferzante da cui nacque il libro scritto a quattro mani con Robert Muller. Ritenevo che con quel lavoro potessi voltare pagina e dedicarmi ad altro.

A gennaio di quest’anno, un giorno come un altro, prese forma inaspettatamente un vecchio progetto mai realizzato e di cui di tanto in tanto accennavo a Robert: realizzare un libro fotografico sulla sua esperienza da volontario nel Congo e nello Yemen. Nel giro di qualche giorno mi ritrovai in possesso del suo vasto archivio composto da un qualche centinaio di scatti dell’epoca. L’impegno era quello di raccontare non tanto la sua vicenda personale quanto, attraverso le immagini, quella dei suoi commilitoni, i tanti ragazzi di allora, molti dei quali non hanno fatto ritorno.

Oggi, mentre il libro è quasi pronto per essere consegnato all’editore, sento l’impegno di tenere acceso il riflettore su di loro, i “soldati liberi” di quel tempo. L’avventura per me è ricominciata e si prospetta lunga.

Vi lascio con le parole di Nony, al secolo Girolamo Simonetti, l’amico fraterno con cui Robert partì da Milano alla volta del Congo. Correva il 1965. Quel Nony che ho sentito nominare innumerevoli volte a tal punto da avere l’impressione che fosse ancora qui tra noi, tanto è nitido il suo ricordo in quelli che lo hanno conosciuto. Nony, alla fine del suo libro (Il bottino del mercenario, Ciarrapico Editore, 1987)  così scrisse sulle schiere di ragazzi ai quali si era unito in Congo:

Forse, fra tutti i paragoni fatti, quello che mi sento d’accettare più vicino allo spirito mercenario è quello con i pirati. Pirati all’arrembaggio in un mare ostile di incomprensioni, che necessita della loro presenza ma li disprezza, un mare di opportunismi, di accordi al vertice, di materialismi d’ogni colore, di specioso e interessato perbenismo. Pirati del XX secolo, che difendono la loro filibusta con la sciabola in una mano mentre con l’altra ghermiscono una bottiglia di rum (o di Primus in questo caso) e combattono irridendo al nemico, incuranti di tutto e di tutti.