23 luglio 1977. Giancarlo Rognoni viene estradato dalla Spagna all’Italia.
Mi tradussero da Madrid a Genova. Viaggiai su un volo Alitalia scortato da carabinieri. I passeggeri presenti apparivano visibilmente preoccupati dalla mia presenza e dal dispiego di forze che mi accompagnava. All’aeroporto le forze dell’ordine erano presenti in massa per prendermi in consegna. Ricordo che nella foga ad un poliziotto cadde anche il caricatore di un M12 mentre mi scortavano.
Fui portato al carcere di Marassi dove venni messo momentaneamente, in una sorta di continuità con il periodo madrileno, in una cella sotterranea in disuso. Dopo mezz’ora che ero lì vennero per trasferirmi nella cella definitiva, ma la serratura si era bloccata. Sembrava una barzelletta… Riuscirono ad aprirla, con fatica, e da quel momento iniziò ufficialmente il mio percorso carcerario in Italia.
Così viene descritto dal Corriere della Sera l’arrivo di Rognoni in Italia: Il neofascista milanese Giancarlo Rognoni, l’ideologo e fondatore del gruppo eversivo “La Fenice”, arrestato nel febbraio di quest’anno in Spagna ed estradato ieri in Italia, è giunto all’aeroporto del capoluogo ligure verso le 19, sempre di ieri sera, con un aereo proveniente da Roma. È stato subito condotto nelle carceri di Marassi, dove attenderà il processo d’appello per il fallito attentato al treno Roma-Torino, che inizierà a Genova il 16 ottobre. Giancarlo Rognoni era giunto nel pomeriggio a Fiumicino a bordo di un volo di linea proveniente da Madrid. Era accompagnato da due funzionari dell’Interpol, che lo avevano preso in consegna alla partenza dalla capitale spagnola. Era apparso contrariato dalla presenza dei fotografi e non aveva voluto rilasciare dichiarazioni (…)»: Rognoni estradato da Madrid rinchiuso ieri a Marassi, “Corriere della Sera”, 23 luglio 1977.
Tratto da: Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Unatestimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni
3 luglio 1984. Muore in un conflitto a fuoco con i carabinieri Rodolfo Crovace detto “Mammarosa”.
Anche noi qualche volta ricorremmo ad aiuti esterni, cioè alla squadra di Avanguardia Nazionale che veniva da fuori: era composta numericamente da pochi elementi, ma risultò determinante specie negli scontri con i katanga, diversi dei quali finirono accoltellati. Questo servì a restituirci una certa tranquillità all’interno della scuola: sapevano che noi, benché in pochi, eravamo agguerriti e cattivi. Il periodo di tregua che ne derivò fu breve e illusorio. Le vicissitudini personali e gli arresti ridussero il numero dei componenti di questo nostro supporto esterno. I compagni vennero a saperlo e ci ritrovammo all’interno della scuola sempre più soli. Ripresero dunque a usarci come bersaglio. In questa seconda fase qualche volta fece la sua comparsa, fuori dallo Zappa, Rodolfo Crovace detto “Mammarosa”, figura di spicco in San Babila.
Un giorno la sua apparizione fuori dall’istituto smorzò gli animi dei compagni. Con i loro modi teatrali “Mammarosa” e Mario Di Giovanni iniziarono a passeggiare sotto le finestre dello Zappa, salutandoci e facendo cenni con cui volevano tranquillizzarci perché “c’erano loro”.
Un altro giorno Mammarosa entrò nel bar Celeste, un locale all’angolo tra viale Marche e via Lario, noto ritrovo di compagni. Vi arrivò da solo e si mise al telefono a gettoni. Fece finta di telefonare e fu attento che i presenti sentissero bene le sue parole rivolte all’interlocutore immaginario. Più o meno disse che era al bar Celeste, ritrovo di “comunisti di merda” e che aspettava che uscissero da scuola i camerati. Finì la telefonata dicendo che se qualcuno avesse provato a dare fastidio ai suoi amici avrebbe fatto i conti con lui. Detto questo mostrò con gesto plateale le due pistole che teneva alla cintura. Tra gli avventori del bar calò il gelo. Quel gesto servì a garantirci ancora un po’ di tranquillità, forse qualche settimana. Poi la situazione peggiorò e una mattina che c’era manifestazione fummo costretti ad uscire dall’istituto passando in mezzo a due cordoni di compagni che ci riempirono di sputi, calci e pugni.
Tratto da: Domenico “Mimmo” Magnetta, Ippolito Edmondo Ferrario, Una vita in Avanguardia Nazionale, Ritter Edizioni
30 giugno 1965. Robert Muller si prepara a lasciare il Congo
Come da programma, rientrai a Stanleyville e vi rimasi alcuni giorni. Feci qualche pattuglia nei pressi della città, ma nulla di memorabile. Qui incontrai Bob Denard, che era diventato il comandante del battaglione, avendo sostituito il belga Lamouline. Il giorno della partenza guardò le mie carte e mi congedò. Mi disse che ci saremmo rivisti. Era il 30 giugno, festa dell’indipendenza congolese. Quel giorno Mobutu, ormai divenuto un despota, fece impiccare tre dissidenti, per mostrare il suo potere. Io ormai ero prossimo a lasciare il Congo. Il 10 luglio mi fu consegnato il biglietto aereo per Bruxelles. Partimmo per Léopoldville dove rimanemmo un giorno prima di imbarcarci per l’Europa. Arrivato a Bruxelles andai a cercare un albergo e ritirai tutti i soldi che avevo depositato in banca. Avrei dovuto fare festa. Andai a cena in un ristorante, ma non mi sentivo soddisfatto, anzi. Anche la sera, tornato in albergo, feci fatica ad addormentarmi, tanto che, per chiudere occhio, dovetti prendere il cuscino e le coperte e sdraiarmi sul pavimento. A certe comodità non ero più abituato. Crollai comunque in un sonno profondo. Il mattino successivo, la donna delle pulizie mi trovò mentre dormivo ancora a terra. era giunto il momento di partire.
Tratto da: Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Un parà in Congo e Yemen 1965-1969, Mursia
30 giugno 2001. Condanna all’ergastolo della corte d’Assise di Milano inflitta a Giancarlo Rognoni per la strage di piazza Fontana
Il primo grado si concluse per me con la condanna all’ergastolo.
Il giorno che appresi della sentenza vissi un profondo senso di smarrimento. Provai la tentazione di arrendermi, di non riconoscere la giustizia che mi stava giudicando e addirittura di non fare ricorso. Non mi aspettavo di essere condannato all’ergastolo di fronte ad accuse totalmente inconsistenti.
La prospettiva di rimettere in gioco completamente la mia vita con un mio ritorno in carcere era cosa concreta. Se una parte di me avrebbe voluto arrendersi, l’altra reagì.
Proseguii nel dimostrare la mia innocenza. Non mollai grazie alla mia famiglia, all’insistenza di mia moglie Franca e dei miei avvocati. Così, con rinnovato vigore, affrontammo il secondo grado del processo, sforzandoci di smontare, dopo averle analizzate, tutte le varie tesi accusatorie. Fu un lavoro enorme, intenso che richiese uno sforzo notevole. Trascorsi settimane facendo ricerche, acquisendo articoli e documenti nelle biblioteche, al fine di documentare meglio le date e l’inquadramento cronologico di molti fatti attinenti al processo. Tusa mi aiutò in questo compito, mentre a difendermi ebbi anche l’avvocato Enzo Fragalà che si concentrò sugli aspetti più politici della vicenda, ma non solo. I tempi della giustizia furono lunghi, ma alla fine fummo in grado di dimostrare la mia totale estraneità ai fatti.
Tratto da: Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni.
21 giugno 1971. L’Assalto al Circolo Perini di Quarto Oggiaro
L’episodio che però sancì l’inizio delle mie disavventure giudiziarie fu la cosiddetta aggressione al Circolo Perini, che ebbe a lungo l’onore della prima pagina.
Qualche giorno prima dei fatti fui avvisato di un dibattito sul fascismo che si sarebbe tenuto al circolo stesso. Me ne parlò Remo Casagrande, storico militante missino di Quarto Oggiaro, invitandomi ad andare insieme a lui e ad altri. Accettai, e il 21 giugno del 1971 ci recammo alla serata. Eravamo in tanti, ma non tutti avevano interesse ad ascoltare il dibattito e, come spesso succedeva, alcuni preferirono attendere fuori; qualcuno si spostò in un bar non lontano. Il circolo era chiaramente un luogo di aggregazione della sinistra, ma l’atmosfera era abbastanza tranquilla. Prendemmo posto all’interno della sala e partecipammo alla discussione. Si creò qualche scontro verbale, anche acceso, ma nulla che facesse presagire cosa sarebbe successo. Terminati i nostri interventi decidemmo di lasciare la sala. Qui accadde l’equivoco dal quale si scatenò ciò che poi sarebbe stato definito, impropriamente, l’assalto al circolo. Nello stesso momento in cui uscivamo, i camerati che erano rimasti fuori si stavano avvicinando al circolo. Se non ricordo male stavano cantando e facendo un po’ di confusione. La persona addetta agli ingressi, vedendoli arrivare in gruppo – saranno stati una trentina -, si affrettò a chiudere il portone per non farli entrare. Posso comprendere la sua paura, anche se non c’erano intenzioni violente da parte loro. Ma nello stesso tempo i camerati che sopraggiungevano, vedendo che ci veniva impedito di uscire, equivocarono e pensarono ad una trappola tesa nei nostri confronti. A quel punto le cose trascesero e scoppiò il finimondo.
Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni.
La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese
Un libro di Giancarlo Rognoni e Ippolito Edmondo Ferrario, Ritter Edizioni
“In quegli anni la militanza ci imponeva di misurarci quotidianamente con
situazioni di violenza fisica, perché la violenza era all’ordine del giorno. Lo
scontro fisico, lieve o pesante che fosse, era la normalità per chi faceva politica.
Rappresentando una minoranza, noi neofascisti avevamo la vita non facile.
Più volte durante le manifestazioni partecipammo ad aspri scontri, ma i problemi
non si limitavano a queste situazioni. Si diventava dei possibili bersagli
dal momento in cui si usciva di casa fino a quando non si rientrava.
Fu quindi necessario attrezzarci per sopravvivere. È un dato evidente che
la cosiddetta “caccia al fascista” era una pratica abitualmente perpetrata a cominciare
dalle scuole e nelle strade. Di conseguenza ci organizzammo per
rispondere a questa violenza con altrettanta violenza”.