da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 31, 2020 | News, Soldati di Ventura
Quel 31 dicembre 1968 nel deserto dello Yemen
Il mio migliore augurio per lasciarci alle spalle questo infausto 2020 e affrontare a testa alta l’anno che verrà.
Ippolito
Il 31 dicembre
eravamo ancora in pieno deserto e puntavamo
sempre a nord. Avevamo l’impressione di esserci persi
in quel mare di sabbia, così affascinante, misterioso
e volubile per le dune che cambiavano altezza e posizione
a seconda della direzione del vento. la sabbia si
infilava ovunque, malgrado i fazzoletti che tenevamo
sulla bocca e gli occhiali che proteggevano gli occhi.
In quel paesaggio incredibile a un certo punto cominciammo
a vedere delle ossa bianche che affioravano
lungo la pista. Ci fermammo. Ce n’erano tantissime
per qualche centinaio di metri: ossa, teschi ma
anche scarponi. Trovammo anche i brandelli di un
paracadute, mimetiche e un elmetto russo. era l’equipaggiamento
in dotazione alle truppe egiziane inviate
da nasser. I teschi erano moltissimi. non so
quanti potessero essere i morti lì presenti. giacevano
insepolti o sepolti grazie alla «pietà» del deserto.
Questa volta non facemmo come in Congo, dove avevamo
preso dei teschi per adornare le jeep e i camion.
Robert Muller, paracadutista, volontario di guerra
R.Muller, I.E. Ferrario, “Un parà in Congo e Yemen 1965, 1969”, Mursia
da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 28, 2020 | News, Soldati di Ventura
Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu
A distanza di vent’anni l’ex mercenario Tullio Moneta racconta dell’incarico ricevuto di rapire l’ex dittatore etiope Mengistu. Testimonianza raccolta da Giorgio Rapanelli.
Nel 1990 Tullio Moneta fu incaricato da una “intelligence” occidentale di rapire l’ex-dittatore rosso dell’Etiopia Mengistu, che si era macchiato di crimini contro l’umanità.
Doveva essere un’”operazione segreta”.
Qualora le cose dovessero andare storte, i paesi non vorrebbero essere coinvolti per motivi politici, negando così ogni coinvolgimento nelle operazioni.
Fuggito dall’Etiopia, Mengistu era stato accolto nello Zimbabwe dal dittatore Mugabe.
Mengistu viveva in uno chalet di proprietà di una cittadina somala sul lago Kariba.
Tullio conosceva bene quella zona turistica, che aveva frequentato con il suo colonnello Mike Hoare, comandante del 5 Commando in Congo nell’azione militare contro i ribelli Simba.
Erano insieme in quella zona per organizzare qualcosa che poi non andò in porto.
Lo chalet si trovava a circa 200 metri dalla riva nord del lago.
Si trattava di rapire Mengistu, caricarlo su di un aereo e riportarlo in Etiopia, dove sarebbe stato processato e condannato a morte… Condanna che sarebbe stata poi tramutata in ergastolo.
Insieme a due mercenari, Tullio Moneta fece un sopralluogo della zona di operazioni.
Scattò delle foto dello chalet, dell’ambiente intorno, dell’intera zona e delle strade, delle due guardie del corpo che guardavano Mengistu e dello stesso Mengistu che passeggiava in abiti civili.
Tullio e i due mercenari si muovevano nella zona camuffati da pescatori, che come altri pescatori si cimentavano nella pesca del “tiger fish”, il “pesce tigre” del lago Kariba, molto difficile da catturare.
La cattura di Mengistu non avrebbe invece presentato problemi per i cinque mercenari che insieme a Moneta avrebbero sopraffatto, addormentato e legato le due guardie del corpo grassocce, probabilmente soldati locali dello Zimbabwe.
Non sarebbe stato necessario eliminare le due guardie del corpo, sparando con le penne stilografiche cal. 22 R.L. di cui erano dotati: un armamento non compromettente, ma micidiale…
Avrebbero facilmente catturato Mengistu, messo nel portabagagli di un’auto e trasportato a cinque chilometri da lì, dove li aspettava su di una pista della savana un Chessna che sarebbe volato fino ad Addis Abeba con a bordo l’ex dittatore.
Intanto Tullio Moneta e i cinque mercenari sarebbero diventati turisti per alcuni giorni in Botswana, al “Mowame Lodge” sul fiume Chobe, un affluente dello Zambesi, prima di tornare in Sudafrica attraverso la “Caprivi Strip”, punto di contatto con Zimbabwe, Namibia e Botswana.
Tuttavia le cose non si erano rivelate così facili…Innanzitutto non era stato possibile contattare un pilota della squadra di Jack Malloch, che avrebbe dovuto portare Mengistu in Etiopia.
Negli anni Ottanta Malloch, che era stato il pilota coinvolto nel fallito colpo di Stato delle Seychelles, ed era scomparso misteriosamente mentre volava con in suo Spitfire restaurato.
Pure il dottore Hans Germani, medico, scrittore e conoscitore di diverse lingue, amico di Tullio Moneta fin dai tempi del Congo, era stato, secondo dicerie, assassinato dalla polizia dello Zimbabwe.
In più, i sondaggi prevedevano una pesante sconfitta del dittatore Mugabe da parte del democratico Morgan Tsvangirai alle prossime elezioni presidenziali.
L’operazione diventava sempre più difficile da attuare.
Quindi, poco prima che Tullio Moneta potesse realizzare il rapimento di Mengistu, arrivò un messaggio radio che dava l’ordine di “ABORT ACTION”. Ossia, l’operazione rapimento di Mengistu era annullata.
La decisione era stata presa in previsione della vittoria di Tsvangirai, che, una volta diventato presidente, avrebbe fatto deportare Mengistu in Etiopia.
Tullio Moneta e i cinque mercenari trascorsero di conseguenza alcuni giorni al “Mowane Lodge” a spese dei mandanti del rapimento di Mengistu che non riconobbero ai cinque mercenari il compenso d’ingaggio pattuito, in quanto il rapimento non era avvenuto.
Come previsto, Tsvangirai vinse le elezioni, ma Mugabwe non accettò la sconfitta e rimase al potere.
Menghistu nel frattempo continuò a rimanere nello Zimbabwe come suo ospite.
da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 28, 2020 | News, Soldati di Ventura
Un’inedita testimonianza di Tullio Moneta. Storia di un blitz organizzato per liberare suore e religiosi
Pubblico la testimonianza di Tullio Moneta, raccolta da Giorgio Rapanelli, circa uno dei blitz ai quali lo stesso mercenario italiano prese parte quando era in Congo per liberare un gruppo di suore e di religiosi tenuti in ostaggio dai Simba.
La preparazione del blitz
Il colonnello Peters convocò gli ufficiali nella sala mensa, dove si tenevano le riunioni strategiche militari.
Il lungo tavolo era cosparso di carte topografiche, che il colonnello stava studiando con alcuni scout.
Quando gli ufficiali furono tutti presenti il colonnello esordì: “Salvo le pattuglie oggi operanti, mi rivolgo solo a chi è in libertà”. Dopo una pausa continuò: “I nostri informatori congolesi mi dicono che alcune suore belghe sono tenute in ostaggio dai Simba in un villaggio a nord ovest di Fizi, a circa trenta chilometri da Fizi.
Adesso, pur non essendo un obiettivo militare, ci sentiamo in dovere di liberarle. Mi occorre un ufficiale volontario e dei volontari…”
Da tempo si sapeva che alcune suore dell’ordine religioso di suor Annunziata, quelle che non erano riuscite a fuggire, erano state prese prigioniere dai Simba unicamente perché erano infermiere.
Le altre erano state uccise. Però, nessuno sapeva dove queste suore fossero tenute in ostaggio.
Adesso gli informatori congolesi assicuravano che quattro suore erano ancora in vita, insieme ad un fratello missionario nero, in un villaggio che era stato finalmente individuato sulla carta topografica.
Poiché non erano obiettivi militari, i soldati non erano obbligati a partecipare.
Solo chi partecipava a combattimenti di tipo militare aveva diritto alla diaria e all’assicurazione in caso di morte o di ferimento.
Quindi, nessuna diaria e copertura per i volontari.
Il colonnello Peters continuò: “Come ben sapete, i volontari che parteciperanno all’azione lo faranno gratuitamente e a loro rischio e pericolo…È chiaro?”. Tutti gli ufficiali rimasero presenti, in silenzio.
“Bene – continuò il colonnello – poiché si tratta di suore cattoliche rivolgo l’invito agli ufficiali e ai soldati cattolici. Poiché, nel 5 Commando esiste un solo ufficiale cattolico, il tenente Tullio Moneta, lo invito, senza costrizione, ad organizzare una pattuglia di soldati cattolici per liberare le suore. È chiaro, tenente Moneta?”
“Io non sono un credente cattolico – replicò il tenente Tullio Moneta.
“Sì, ma sei un Italiano e quindi sei cattolico – replicò Peters, con un ironico sorriso… Al quale Moneta rispose con un altrettanto ironico sorriso.
Dopo che Peters mise in libertà gli ufficiali, furono sguinzagliati i sergenti per trovare i volontari cattolici.
In breve tempo ne trovarono una trentina da diverse pattuglie e non tutti cattolici, ma pure protestanti e non credenti.
Tullio ne scelse dieci tra quelli delle varie pattuglie, i migliori come combattenti e fisicamente in ottima forma, facendo firmare loro una dichiarazione che in quell’azione erano in veste di “volontari”.
Ossia, in caso di morte o ferimento non avrebbero avuto compensi finanziari come da contratto, in quanto un’azione umanitaria non era vista come azione militare. Pure i tre mercenari italiani che erano nella pattuglia di Tullio Moneta – Piero Nebiolo, Eugenio Ciccocelli e Perissinotto – fecero parte del commando dei volontari.
Non era la prima volta che Tullio aveva liberato religiosi e civili.
Era capitato altre volte che dopo una sconfitta militare, i Simba scappassero, lasciando vivi gli ostaggi imprigionati. Ma questa sarebbe stata un’azione di guerriglia umanitaria.
Si sarebbe trattato però sempre di un attacco militare, sapendo pure dove si trovassero gli ostaggi, lasciandoli incolumi.
Come faceva sempre prima di partire per un’azione, Tullio controllava lo stato di salute degli uomini della pattuglia. Dovevano essere in perfetta forma mentale, e senza problemi fisici al corpo, alle gambe e ai piedi.
Andare in pattuglia con problemi soprattutto ai piedi feriti significava creare problemi agli altri mercenari e a non poter ritornare. Piedi e gambe in forma eccellente significava la salvezza, a parte le pallottole.
Usciti dalla sicurezza della base trincerata di Baraka, i mercenari sarebbero stati soli in un territorio ostile, sia per i nemici Simba, sia per i pericoli in agguato nelle foreste e nelle savane congolesi.
Era sempre possibile pestare un serpente Mamba… Sapevano che dovevano contare solo sul loro comandante e su ogni commilitone, oltre agli scout, senza i quali un mercenario bianco si sarebbe perso in quell’ambiente equatoriale.
Tullio controllò pure il funzionamento delle armi, se il numero dei caricatori fosse sofficiente, insieme all’attrezzatura sanitaria del “medic”, ossia del mercenario che, oltre che combattente, aveva le funzioni di primo intervento sanitario in caso di ferimento. Infine, studiò ancora le carte topografiche con gli esperti.
Avrebbe avuto la copertura aerea di un cacciabombardiere T28, come osservatore dall’aria delle mosse dei Simba e in continuo contatto radio con la pattuglia. La pattuglia avrebbe avuto solo un armamento leggero, perché l’azione di guerriglia sarebbe stata quella del tipo “mordi e fuggi”.
Si sarebbe trattato un attacco improvviso e di una ritirata veloce per rientrare alla base, portando con sé gli ostaggi liberati. Ma non si conosceva la effettiva situazione.
Gli informatori congolesi parlavano di un villaggio stabile con circa un’ottantina di Simba, più qualche donna.
Quindi i mercenari avrebbero dovuto compiere con gli scout una osservazione dell’obiettivo, dove erano tenuti rinchiusi i cinque ostaggi e poi sferrare un attacco.
Ma sarebbero dovuti prima giungere sull’obiettivo, osservare la situazione, decidere e poi agire…
La pattuglia partì da Baraka con un solo camion, scortata dall’autoblindo Ferret di “Skinny” Coleman, più due serventi del mezzo.
Giunti alla base delle colline a nord ovest di Fizi gli uomini scesero dal camion, che fu mimetizzato, mentre Coleman metteva in posizione la mitragliatrice del Ferret sul sentiero da cui sarebbero poi ritornati i mercenari dopo l’azione, per respingere eventuali inseguitori Simba.
Il drappello dei volontari si incamminò verso quel villaggio Simba individuato sulla carta topografica.
Precedevano il drappello gli scout katanghesi che il tenente Mutambala forniva costantemente al 5 Commando, più un altro paio di mercenari esperti nel seguire le tracce.
Il drappello camminava veloce, senza parlare. Nelle fitte erbe della savana solo i piedi sentivano il sentiero.
Nelle foreste che attraversavano il caldo era afoso. Ma era ciò che incontravano sempre durante la stagione secca.
Mentre attraversavano una savana videro giungere di corsa uno scout che riferì al tenente Moneta che i mercenari e gli scout mandati in avanscoperta avevano intercettato le quattro suore bianche e i fratello missionario nero mentre lavavano i panni in un ruscello, guardate da cinque Simba armati, a circa quattrocento metri da lì, nella foresta… I mercenari e gli scout si erano acquattati, tenendo sotto tiro i Simba, che stavano chiacchierando tra di loro, con i kalashnikov buttati da una parte, lontani da loro.
Evidentemente, non si aspettavano un attacco.
Né pensavano ad una ribellione da parte delle religiose e del missionario nero.
In prossimità del ruscello dove erano le suore e i Simba, Tullio fece muovere i suoi uomini a semicerchio, spedendo contemporaneamente uno scout e un mercenario sul sentiero verso l’accampamento Simba, che era a circa cinquecento metri da lì.
Quando i mercenari uscirono allo scoperto con le armi spianate, lo stupore si dipinse sul volto dei Simba, delle religiose e del fratello missionario nero. La sorpresa aveva paralizzato i Simba che furono ammucchiati da una parte, sotto tiro delle armi, mentre alcuni mercenari prelevavano i kalashnikov.
Le suore erano macilente, provate, seminude.
Non erano una bella visione… Erano state violentate dai Simba.
Due di esse erano incinte; e si vedeva dal ventre gonfio.
Mentre i mercenari cercavano qualche camicia per ricoprire le nudità delle suore, la radio gracchiò: “Attenzione, attenzione, da Aquila Bianca a Tiger… I Simba del villaggio stanno velocemente venendo verso di voi. Aquila Bianca cercherà di impegnarli e di bloccarli per un quarto d’ora. È il tempo che noi possiamo avere per rimanere in zona prima di rientrare”.
Infatti, era quella l’autonomia che avevano in zona di combattimento gli aerei che partivano dalla base di Albertville, a sud del lago Tanganika.
Tullio dette ordine di rimettersi in marcia velocemente. “Sorelle – disse alle suore – sono spiacente, ma dobbiamo andare via di corsa, perché stanno arrivando i Simba”.
Non potendo portarsi dietro prigionieri, diede l’ordine a Piero Nebiolo di risolvere la cosa. I Simba sapevano di dover morire, ma erano impassibili. Era come se la morte non li riguardasse. Tullio osservava le suore, mentre risuonavano i cinque colpi di pistola di Nebiolo. I volti delle sorelle erano a loro volta impassibili.
Solo ad una suora un lampo di gioia velò gli occhi.
Evidentemente, dopo ciò che avevano subito dai Simba, l’idea della fratellanza tra gli uomini di tutte le razze era stata riconsiderata.
“Adesso dobbiamo andare veloci – disse Tullio ai liberati – Il T28 per un po’ fermerà i Simba, che resteranno immobili nelle erbe della savana per non essere mitragliati”.
Le suore e il missionario nero camminavano veloci come i mercenari, in silenzio.
Tullio aveva lasciato una piccola retroguardia per impegnare eventualmente i Simba in un combattimento di copertura.
Quando giunsero al camion e al Ferret dopo una marcia spossante le suore e il missionario nero si liberarono del peso dell’angoscia con cui avevano convissuto per mesi.
Si misero ad abbracciare i mercenari, a ridere e a piangere contemporaneamente.
Poi vennero portate con il camion a Fizi e lasciate in quella base del 5 Commando.
Sarebbero state riportate nei giorni successivi ad Albertville dalla loro madre superiora, suor Annunziata.
Quando alcuni giorni dopo venne fatta una spedizione armata più consistente per distruggere definitivamente quel villaggio Simba, i mercenari trovarono una radura vuota, senza più le capanne.
Evidentemente temevano un successivo attacco mercenario e quindi smantellarono le capanne, portandosi via i pali da riutilizzare per un nuovo villaggio da qualche altra parte.
da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 23, 2020 | News, Soldati di Ventura
“Noi fratelli d’armi in Africa come pirati”: un libro di Ferrario racconta lo spirito dei mercenari
di Matteo Brunetti, Secolo d’Italia, 20 dicembre 2020
È dal 2009 che Ippolito Edmondo Ferrario, scrittore milanese nato nel ’76, dedica parte delle sue ricerche e della sua creatività alla ricostruzione dell’epopea dei volontari italiani che hanno combattuto in Africa negli anni Sessanta. Giovani, non conformisti, coraggiosi: in molti lasciarono la famiglia, gli affetti e il benessere degli anni del boom per raggiungere il Congo. Erano militari di ventura, professionisti della guerra, che seguendo i loro ideali si ritrovarono a combattere in un paese straniero dilaniato al suo interno da un terribile conflitto armato.
Non erano soldati sanguinari
Per la loro condizione di “soldati di ventura” l’opinione pubblica e il conformismo progressista li ha sempre marchiati con l’appellativo di “les affreux”, ovvero gli orrendi, i terribili, e le loro coraggiose e disinteressate azioni, seppur volte a salvaguardare la vita della popolazione civile, passarono in secondo piano rispetto all’ingiusta fama di soldati sanguinari, fascistoidi e senza scrupoli.
La canzone di Pino Caruso al Bagaglino
“Son morto nel Katanga / venivo da Lucera…” cantava, parlandone al positivo, solo Pino Caruso in un disco inciso nel 1968 dal Bagaglino con parole di Pier Francesco Pingitore, il quale nel suo cabaret aveva avuto modo di conoscere qualche ragazzo reduce da quell’esperienza… Conformismo a parte, infatti, quella stagione è stata comunque celebrata nell’immaginario europeo e occidentale. Nei libri, nel cinema e, con la ballata di Pingitore, anche nella musica popolare. A cominciare da Africa addio, il capolavoro cinematografico di Gualtiero Jacopetti che il regista girò – insieme al suo amico e sodale Franco Prosperi – proprio seguendo i mercenari e osservando in presa diretta le loro imprese.
I film che celebrano i mercenari d’Africa
Oppure ai due film che celebrarono al meglio la figura di “quei” ragazzi in Africa: I quattro dell’Oca selvaggia del 1977 e I mastini della guerra del 1980, entrambi trasposizione cinematografica di due bei libri, il primo di Bob Carney, il secondo di Frederick Forsyth, lo scrittore britannico che dedicava il romanzo anche a Pier Giorgio Norbiato, un eroico italiano soprannominato “le fasciste”.
Il libro di Ferrario: Maktub, Congo-Yemen 1965-1969
Appunto, in tutta questa bibliografia, mancava sinora adeguatamente il ruolo svolto dagli italiani, che pure c’erano e non sono stati pochi. Ed ecco con questo ultimo Maktub. Congo-Yemen 1965-1969 (Edizioni Ritter, pp. 107, euro 24,00), Ferrario a quattro mani con Robert Müller, uno dei protagonisti di quell’epopea, manda in libreria un bellissimo libro in grande formato con tutto il racconto fotografico, passo dopo passo, tanto che il risultato è quasi cinematografico.
Le esperienze raccontate nel libro
Müller, classe ’42, figlio di un soldato della Wehrmacht e di madre italiana, nel ’65 parte alla volta del Congo Belga insieme a Girolamo Simonetti. Catapultati in una realtà cruda e spietata, fatta di massacri tribali, morte e distruzione, diventano presto “fratelli d’armi”, entrando a far parte del leggendario gruppo Paras Cobra. Nel ’68, solo qualche anno dopo, Müller raggiunge il deserto dello Yemen per combattere a fianco dei ribelli realisti sostenuti dall’Arabia Saudita contro i repubblicani filo-sovietici. Il libro curato con Ferrario rievoca e racconta entrambe le esperienze.
Centinaia di foto
Non mancano tra le centinaia di foto, quelle più goliardiche e giovanilistiche. In particolare, c’è n’è una in cui Simonetti e Müller “giocano” a fare i pirati. Commentata da parole dello stesso Simonetti, l’amico romano – forse proprio colui che parlandone al Bagaglino ispirò Pingitore – che era partito con l’Africa insieme a Müller: “Fra tutti i paragoni fatti, quello che mi sento d’accettare come più vicino allo spirito mercenario è quello con i pirati. Pirati all’arrembaggio in un mare ostile di incomprensioni, che necessita della loro presenza, ma li disprezza, in un mare di opportunismi, di accordi al vertice, di materialismo d’ogni colore, di specioso e interessato perbenismo. Pirati del XX secolo, che difendono la loro filibusta con la sciabola in una mano, mentre con l’altra ghermiscono una bottiglia di Rhum e combattono irridendo al nemico, incuranti di tutto e di tutti”.
da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 23, 2020 | News, Soldati di Ventura
Un po’ canaglie, un po’ eroi.I mercenari europei che hanno fatto l’Africa
Un libro fotografico appena uscito narra le gesta dei soldati di ventura bianchi
chiamati in Congo negli anni Sessanta contro la guerriglia marxista dei Simba
Di Adriano Scianca, La Verità, 8 dicembre 2020
«Di giorno in giorno si rafforzava la ripugnanza verso ogni cosa utile. La lettura e i sogni costituivano l’antidoto; ma le regioni in cui era possibile agire sembravano irraggiungibili. Là m’immaginavo un’audace società di uomini, il cui simbolo era il fuoco, il cui elemento era la fiamma. Per essere accolto in essa, o anche solo per conoscere un uomo di fronte al quale provare rispetto, avrei volentieri rinunciato a tutti gli onori che si possono conseguire con una delle tante attività umane». Nel 1913, per «conoscere uomini di fronte ai quali provare rispetto», l’appena diciottenne Ernst Jünger fugge dalla sua famiglia borghese e raggiunge l’Africa, arruolandosi nella Legione straniera. Il racconto tragicomico di quell’avventura giovanile, finita senza eroismi e con un cazziatone paterno, è narrato in Afrikanische Spiele. Anche nei decenni successivi, tuttavia, i giovani europei non hanno cessato di cercare il loro altrove avventuroso, di giocare i loro Ludi africani.
Le loro sono storie semi sconosciute, relegate in note a pie’ pagina nei libri che parlano dei misfatti occidentali nel Continente nero. Giovani di Milano, Amburgo, Anversa, Marsiglia finiti in qualche fossato congolese con un proiettile in testa, senza neanche un trafiletto sul giornale, magari senza neanche una tomba.
A parlarne, e a mostrare i loro volti, arriva ora Maktub, del giornalista e scrittore Ippolito Edmondo Ferrario, edito per i tipi di Ritter. Ferrario, che ha già trattato il tema dei soldati di ventura in altre sue pubblicazioni, raccoglie in Maktub i racconti di Robert Müller, giovane (negli anni Sessanta…) italiano di padre tedesco, ma di fatto milanesissimo.
E infatti l’avventura inizia proprio nella città meneghina, al Bacco, un bar di corso Vercelli. È lì che Robert, un giorno di ottobre del 1965, decide insieme a un amico di lasciare tutto e raggiungere il Congo per arruolarsi con i mercenari. In quegli anni, l’ex colonia belga era in forte agitazione.
Moise Ciombe aveva proclamato l’indipendenza della ricca regione mineraria del Katanga.
In suo soccorso, e in soccorso degli interessi minerari belgi nell’area, intervennero i mercenari europei, schierati contro l’Armée nationale congolaise e le truppe Onu. Ma, in una seconda fase, gli schieramenti si mescolano: Ciombe viene messo alla guida di un governo di unità nazionale, e le unità di mercenari bianchi ed ex gendarmi katanghesi vengono integrate nei reparti dell’Anc, che prima avevano combattuto, contro i ribelli Simba. Quella dei Simba era una rivolta etnosociale animata da un confuso ma fanatico sentimento revanscista.
Scrive Ferrario: «Giovanissimi, per lo più poveri e sbandati, i Simba venivano indottrinati all’odio indiscriminato per tutto ciò che era considerato americano ed europeo, convinti che con l’eliminazione fisica degli avversari avrebbero conquistato quella prosperità e quella ricchezza fino a quel momento negate; dunque l’ostacolo era rappresentato da tutti i bianchi, ma anche da quei congolesi che avevano sposato un modello di vita europeo, specie nelle grandi città.
Un’approssimativa infarinatura ideologica, credenze magico-religiose e il massiccio consumo di droghe furono gli elementi che contraddistinsero le milizie ribelli». È in questa seconda fase della guerra civile che Müller arriva in Congo. «Sui mercenari», racconta l’ex soldato di ventura, «ne hanno dette di tutti i colori. Sono gente priva di scrupoli, avventurieri, ultimi difensori del colonialismo, individui rapaci, crudeli, sanguinari, relitti di idee sorpassate, e chi più ne ha, più ne metta. Ma in realtà, qual è realmente il prototipo del mercenario? […] In fondo, si tratta di giovani muniti di scanzonato coraggio, refrattari a qualsiasi tipo di disciplina che non sia quella imposta da quei due o tre dei loro nei quali si riconoscono e che vengono accettati come capi. Sono degli anticomunisti per vocazione, questo sì.
Per questi svitati, tutto il resto non conta. Gli equilibri internazionali, gli accordi opportunistici tra i vari Stati, le regole: tutta zavorra».
Il libro colleziona ritratti incredibili, come quello, tanto per citarne uno, del corso Roger Bruni: arruolatosi con la Legione straniera a 19 anni, combatte subito a Saigon, poi entra nei paracadutisti coloniali. Si batte eroicamente a Dien Bien Phu, dove viene fatto prigioniero, poi raggiunge l’Algeria e partecipa alla battaglia di Algeri.
Nel 1965 si congeda dall’esercito e si arruola tra i mercenari in Congo. Poi parte per la guerra dello Yemen e infine segue Bob Denard nel golpe alle isole Comore e ancora nel Benin. Muore nel 1980, durante un banale intervento chirurgico.
Non ci si stupisce che Müller, dopo aver combattuto a fianco di gente del genere, fatichi a comprendere coloro che ha lasciato al bar Bacco: «Quando, mesi dopo, sarei rientrato in licenza in Italia, mi sarei reso conto che non avevo più niente in comune con i miei coetanei.
Non un vanto, ma una constatazione. Il Robert di un tempo, il “biondino” che arrivava sempre in ritardo, che giocava a flipper e che indossava pure l’eskimo, era morto, svanito, un giorno, durante il primo rastrellamento compiuto a Stanleyville, vicino all’aeroporto, lungo la cosiddetta “pista degli elefanti”».
Anche coloro che non erano partiti per l’Africa, tuttavia, è probabile che in certe serate strimpellassero gli accordi della celebre canzone del Bagaglino, cantata da Pino Caruso e poi riprodotta in infinite versioni, Il mercenario di Lucera: «Son morto nel Katanga / venivo da Lucera / avevo 40 anni / e la fedina nera…».
Se i racconti del giovane idealista sono emozionanti, il pezzo forte del libro è tuttavia il corposissimo apparato fotografico. Immagini bellissime, dove l’Africa sembra essere davvero quella sognata dal giovane Jünger e a dominarvi emerge veramente «un’audace società di uomini, il cui simbolo era il fuoco».
Giovani sfatti dopo un rastrellamento, in pose goliardiche al campo base, scene di guerra, di morte, di vita, di relax, di gioco. Les affreux, li chiamavano. I terribili. Les affreux . Soldati di ventura in Africa, è anche il titolo di una graphic novel recentemente pubblicata da Ferrogallico, con sceneggiatura sempre di Ippolito Edmondo Ferrario e apparato critico di Alberto Palladino e Franco Nerozzi.
È quest’ultimo a raccontarci l’universo mercenario come «il mondo dell’avventura più straordinaria. Quella dove varchi il limite di ogni sicurezza e ti lanci a capofitto nel seducente mare dell’ignoto. Dove tutto è possibile: morire male, per mano di sanguinari “selvaggi” oppure diventare “re” per qualche giorno, in terre lontane, ancora governate dalla volontà e dal coraggio di chi se le vuole prendere.
È l’avventura che soltanto la guerra ti può dare, con il suo corredo di sentimenti forti, di esaltazione, di fratellanza con chi condivide il tuo impeto e la tua paura». Tornano in mente i versi finali de Il mercenario di Lucera: «Addio verdi colline / ormai scende la notte / i fuochi sono spenti / addio dolci mignotte / con le vostre guepières / ho fatto una bandiera / portatela agli amici / che invecchiano a Lucera. / Viva la morte mia / viva la gioventù».
da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 23, 2020 | News, Soldati di Ventura
Mercenari e missionari tra mito e realtà
Nell’ottica di una precisa ricostruzione storica di avvenimenti relativi al ruolo dei mercenari italiani in Congo, riporto l’interessante e puntuale ricostruzione fatta dal Maggiore Tullio Moneta sul ruolo di alcuni missionari in quel periodo presenti nello stato africano sconvolto dalla guerra civile e puntualmente raccolta da Giorgio Rapanelli già autore, insieme al sottoscritto, della biografia di Tullio Moneta.
Con grande rammarico, il Maggiore Tullio Moneta del 5 Commando mercenario in Congo deve fare una dichiarazione nei confronti del saveriano padre Angelo Pansa. In un articolo su “Jesus” del 2003, dal titolo “Il missionario dell’Oca Selvaggia” (simbolo del 5 Commando mercenario), Padre Angelo Pansa dichiarava che in Congo fu fatto “colonnello” dal Generale Mobutu, comandante dell’Armée Nationale Congolaise e messo al comando di 45 mercenari di una V Compagnia, di cui facevano parte alcuni mercenari del 5 Commando anglosassone del Colonnello Mike Hoare. Padre Pansa vantava in quell’articolo, come in altri articoli di stampa e in interviste televisive azioni militari umanitarie per liberare centinaia di persone, tra missionari e civili, ostaggi dei ribelli Simba. Cita tra i suoi combattenti pure il noto criminale Ronald Biggs, che con la dinamite creava dalla foresta radure per fare atterrare gli elicotteri con i quali trasportava gli ostaggi verso basi più sicure. Evidentemente padre Pansa non aveva mai visto un elicottero atterrare di una strada, o in uno spazio di dieci metri quadrati… Ma c’è di più: il dinamitardo Ronald Biggs non fu mai in Congo: né prima, né durante la guerra ai Simba, né dopo. Sempre su “Jesus” è pubblicata una foto che mostra alcuni mercenari insieme ad un missionario.
La didascalia su Jesus dice che sono stati gli uomini della V Compagnia guidata da padre Angelo Pansa a liberare il missionario padre Schuster, sfuggito al massacro dei suoi confratelli ad opera dei Simba a Stanleyville. Poi si scopre l’altra parte della foto pubblicata in un sito francese del corpo dei mercenari in Congo, in cui è scritto, in francese “Le lieutenant Kowalski et ses hommes découvrente le pére Schuster”, (il tenente Kowalski e i suoi uomini che scoprono padre Schuster). Nella foto Tadeusz Kowalski è il mercenario con il basco che ascolta padre Schuster. Unendo le due foto si ha la foto intera, di cui la parte sinistra è servita a padre Pansa di prendersi il merito di aver salvato padre Schuster.
Un autentico falso. Soprattutto perché delle gesta di padre Pansa è solo lui, padre Pansa, che ne parla a ruota libera e senza portare prove, con anni di ritardo dalla guerra contro i Simba. Né nel libro “Congo Mercenary” del colonnello Mike Hoare, né in quello del maggiore Siegfried Mueller in “Les nouveaux mercenaires”, di cui faceva parte il tenente Kowalski in tutta la campagna per la liberazione di Stanleyville e di tutto il territorio fino ai confini con l’Uganda e il Sudan, mai è citato un “colonnello” Angelo Pansa, né un missionario combattente di nome Angelo Pansa. Eppure esistono tre foto del padre: una sorridente con il mitra e una didascalia che recita in inglese “Angelo il cappellano scroccone del 5 Commando”; poi altre due con armi in posizione di tiro all’anca, vestito con pantaloncini, camicia cachi senza distintivi, né gradi militari, con berrettino con visiera, probabilmente da boy scout, senza alcun grado…
Da tempo il maggiore Tullio Moneta ha contestato padre Pansa in diversi filmati su youtube. Tullio Moneta ha sempre apprezzato i missionari che aveva conosciuto. Li considerava soldati coraggiosi che combattevano senza armi in una missione a favore dei civili africani, come padre Palmiro Cima, che rischiava la vita sotto gli attacchi dei Simba a Baraka, vicino alla base del 5 Commando; oppure il saveriano padre Silvestro Volta, che aveva conosciuto in Sierra Leone da civile e che lo accompagnava nel suo ospedale di Makeni, in mezzo alla foresta tropicale, a 250 chilometri da Freetown…
Ma quando ha letto negli archivi dei Saveriani che padre Angelo Pansa aveva dichiarato in forma scritta che il col. John Peters, comandante di Tullio Moneta e della base del 5 Commando, succeduto al colonnello Mike Hoare, voleva uccidere i due missionari di Nakiliza per fare ricadere la colpa sui Simba e, peggio ancora che i mercenari sparavano ad una statua della Madonna esposta pubblicamente a Baraka, l’ha mandato fuori dai gangheri. Ha sopportato anni di bugie, da quelle de “L’Unità” e di altri giornalisti e scrittori sui mercenari in Congo, fatti passare da criminali, “da torturatori di prigionieri, violentatori in gruppo di donne, compiendo su di loro spaventose atrocità” come ultimamente ha scritto nel suo romanzo Massimo Valerio Manfredi dal titolo “Quinto comandamento”, con cui ha celebrato le gesta di un missionario “colonnello” guerriero, ispirato da padre Pansa.
Ma la falsità, inspiegabile, da parte di un missionario, Tullio Moneta proprio non se l’aspettava. Inizialmente padre Pansa scrisse a Tullio Moneta tramite me: voleva sapere in che periodo Tullio fu ferito a Baraka. Non glielo scrivemmo, in quanto avrebbe poi affermato che egli era stato a Baraka in quel periodo. Comunque nei quasi due anni – dal settembre 1965 all’aprile del 1967 – in cui Tullio è stato a Baraka, padre Pansa non si è mai visto.
Infatti nessuno lo conosceva. Egli veniva nominato solo dal cuoco greco Triantaphillopulous che diceva “dovremmo fare come padre Angelo che è andato a combattere con i mercenari”. Lo conoscevano quindi solo come “padre Angelo”. Fui io che rivelai a Tullio che padre Angelo faceva di cognome “Pansa”. Lo avevo sentito dire in Congo nel 1966 dal sacramentino padre Giovanni Rottoli, insieme a quello di qualche altro missionario che aveva preso le armi. Se padre Pansa fosse passato a Baraka, l’”intelligence” che controllava la base avrebbe avvisato tutti gli ufficiali e i sottufficiali della presenza passeggera nella base di un secondo missionario di nome Angelo Pansa. Invece, a Baraka è sempre stato un illustre sconosciuto.
In una seconda lettera inviataci, padre Pansa scrisse che tutto ciò che Tullio Moneta aveva scritto e detto era frutto della sua fantasia…
Lasciamo la parola a padre Angelo Pansa che dichiara nella cronaca sugli eventi congolesi, presente negli archivi dei Padri Saveriani:
Scrive padre Angelo Pansa: “Posso anche aggiungere un altro dettaglio: Non erano solo i ribelli Simba che avevano in odio la religione, ma lo stesso comandante di un gruppo di mercenari, colonnello Peter, protestante, aveva in odio i cattolici. Nel suo piano c’ era l’uccisione dei padri di Nakiliza per poi accusare i ribelli di averli uccisi. A Baraka erano proprio i mercenari che si divertivano a sparare alla statua della Madonna in dispregio verso la fede cattolica.”
Padre Palmiro Cima, se ancora vivente, potrebbe dire molto sul colonnello Peters, per l’aiuto da questi dato con scorta di mercenari nel ritrovamento dei corpi dei confratelli assassinati dai Simba. E soprattutto se a Baraka era esposta una statua della Madonna sulla quale i mercenari si divertivano a sparare…