da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 21, 2020 | Accadde Domani
ACCADDE DOMANI. 12 DICEMBRE 1969. GIANCARLO ROGNONI E LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA. UNA TESTIMONIANZA INEDITA (Seconda parte)
Fu grazie a Foscari che Siciliano venne introdotto all’ambiente milanese.
Ricordo un ultimo dell’anno trascorso a casa di un camerata milanese, Franco Mojana a cui partecipai insieme a Siciliano e altri. Verso le cinque del mattino ricevetti a casa una telefonata da una comune amica, Ada.
Ricordo che la ragazza mi chiese di poter fare da testimone al matrimonio tra le e Martino che si erano conosciuti quella sera stessa…Al momento non avevo compreso, pensando al mio ruolo di testimone per un incidente accaduto magari nella notte, rientrando dalla festa, e non per le loro nozze.
Sono tutti episodi che ben poco hanno a che vedere con riunioni e organizzazioni di attentati e stragi… Successivamente, vicissitudini personali, portarono Siciliano a tentare anche il suicidio nei servizi di un bar vicino alla sede del Msi a Milano.
A tutta una serie di illazioni mossemi, risposi portando diverse prove concrete.Dimostrai la mia presenza sul posto di lavoro, in banca, il 12 dicembre grazie ad una dichiarazione della Banca Commerciale Italiana, l’istituto per cui lavoravo in una delle filiali situata in viale Campania.
Tale documento fu fondamentale perché impedì all’accusa di conferirmi il ruolo di colui che aveva addirittura posto l’ordigno all’interno dei locali in piazza Fontana; rimanevano però le accuse di aver fornito supporto logistico.
Su come poi si sarebbe svolto il mio 12 dicembre entrerò nel merito successivamente riportando un episodio in particolare.
Approntai una difesa in più punti per dimostrare la mia estraneità ai fatti, ma gli sforzi furono inutili.
Si volle sostenere un sillogismo per il quale, essendo in contatto con i supposti autori della strage, io stesso dovevo avervi preso parte secondo precise modalità logistiche.
Il 28 giugno 2001 presenzia in aula rilasciai ai giudici questa mia dichiarazione: «(…)Quest’ultimo aspetto voglio sottolinearlo perché ha una certa attinenza con questo processo che vede la tesi accusatoria reggersi in larga parte sulle vociferazioni che sarebbero corse in ambito carcerario.
È una banale ovvietà, ma voglio ribadirlo.
Il carcere è un ambiente degradante e corruttore.
Considerate che io, cinquantaseienne, le sole volte che vidi droghe di tutti i tipi fu proprio quando ero detenuto nei cosiddetti carceri speciali. In carcere è facile smarrirsi. Il dottor Maggi mi fu vicino venendomi a trovare, scrivendomi, inviandomi libri, facendomi sentire insomma parte di una comunità viva.
Per chi non dispone di simili ancore e magari non dispone di una salda struttura spirituale è facile piegarsi e spesso sprofondare nella degradazione e nell’abiezione.
Altrettando facile subire sollecitazioni e lusinghe oppure reagire agli stimoli come una sorta di riflesso pavloviano. Ed è quanto mi pare sia avvenuto per alcuni.
Ad esempio Bonazzi. Individuo un pezzo di una lettera che da poco ho ritrovato che egli mi scrisse dal carcere di Nuoro l’8/10/80, proprio nel 1980, e mi dice: “Da parte mia ho preparato un pezzo sulla strage che apparirà su un giornaletto di camerati a firma Quex”.
“È chiaro che la strage è di potere” lo scrive maiuscolo e sottolineato.
“Su questo non ci possono esserci dubbi”.
Ed ora indica come uno fra i responsabili me, che con il potere ho certo ben poco a che vedere.
Spesso, durante le udienze, è stata ventilata l’esistenza di una sorta di incitamento alla violenza da parte della Fenice. Orbene questo periodico era regolarmente registrato, tutti i numeri depositati.
Eppure nessun articolo è stato presentato a sostegno di questa tesi. Segnalo anzi che il motto campeggiante tutte le prime pagine dei vari numeri era quello di Don Bosco, “Nello sport, come nella vita, audaci, forti, leali e generosi” a cui avevamo sostituito “sport” con “impegno politico” e rappresentava, questo sì, il nostro pensiero.
Debbo dire, e credetemi che è assolutamente la verità, arrivati alla conclusione di questo processo, non ho ancora ben capito che cosa io avrei esattamente fatto, quale sarebbe stato il mio ruolo in questo progetto criminale.
Si è molto parlato dei tempi e dei luoghi in cui io ho conosciuto i miei coimputati e il Siciliano.
Mi pare che una parte civile per sostenere una tesi accusatoria mi abbia fatto presenziare negli stessi giorni a eventi differenti con differenti persone siti in luoghi a centinaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro. Io non ho conosciuto Siciliano nell’occasione indicata dallo stesso e ho conosciuto i miei imputati solo in data susseguente a quella della strage. Essenziale però a mio giudizio non è nemmeno questo, bensì il fatto che io non ho avuto, né nella genesi né nella realizzazione di questo attentato, alcun ruolo.
Mi pare quasi che si stia presentando un paradosso assurdo. Da un punto di vista giudiziario, ovviamente non morale, sarebbe quasi preferibile che io avessi assunto un qualche ruolo, magari marginale, per poter, confessando, sfuggire, tramite prescrizione, al giudizio. In realtà però è che non posso e neppur volendo, confessare alcunché. Dovrei mentire benchè non veda che ruolo credibile potrei creare anche in considerazione del fatto che le indagini hanno permesso di appurare che il giorno della strage io ero al mio posto di lavoro.
È infatti presumibile che, in un piano così articolato e complesso, nessuno spazio possa essere affidato a complici non necessari e, nel mio caso, fonte di possibile identificazione.
Fra l’altro credo che l’intossicazione a cui fu sottoposto lo schieramento politico a cui appartengo sia frutto di tecniche di disinformazione e depistaggio attuate a posteriori.
Se la regia vi fu, questa costruzione di indizi attuata dopo i fatti, si rivela molto labile per le difficoltà di distinguere il vero dal falso, sia per il passare del tempo, che offusca i ricordi, sia per la disinformazione che fu attuata ai danni di un’area in anni di forti tensioni politiche e sociali in cui a volte varie persone si sono trovati ad essere involontari attori o comparse.
Il Pubblico Ministero, con un’immagine suggestiva, suggerisce che non credere all’impianto accusatorio equivarrebbe a considerare colpevoli di un complotto inquirenti e magistrati che hanno istruito questo procedimento.
Questo non è vero. Io ho molto apprezzato le indagini di polizia giudiaziale eseguite su disposizione della pubblica accusa tendenti a verificare le mie dichiarazioni. D’altronde non poteva essere differentemente, dato che proprio i risultati di quelle indagini costituiscono larga parte della mia difesa.
Pensavo anzi che il Pm desse maggior credito alle indagini da lui disposte.
Quello che ho molto apprezzato, durante il drammatico interrogatorio cui fu sottoposto Azzi in carcere, è che lo stesso, riaffermando l’astio nei miei confronti, ribadiva di non aver mai fatto dichiarazioni sui miei presunti coinvolgimenti nella strage di piazza Fontana. Ho apprezzato, dicevo, il comportamento della pubblica accusa che rifiutava la scorciatoia proposta dell’avvocato dell’Azzi per uscire dall’empasse e cioè il mio arresto.
Credo che il Pubblico Ministero sia convinto della tesi accusatoria da lui proposta, e non abbia chiesto la mia condanna solo per appagare la legittima soddisfazione di aver chiuso il caso.
Questo però ai miei occhi non fa di lui motore di un complotto bensì semplicemente un uomo che sbaglia, perché sbaglia. Su alcuni organi di stampa questo processo è stato presentato come l’ultima occasione.
Se debbo essere sincero questo è per me motivo di preoccupazione.
Il timore cioè che si colga questa occasione per chiudere in qualche modo il caso trovando dei colpevoli pur che sia. Nei sopravvissuti si sviluppa una forte ritrosia a rivisitare quegli anni, vuoi per un desiderio di cancellazione, vuoi perché tentati inconsciamente di attribuire a sé stessi il ruolo dei buoni, vuoi perché non vogliono coinvolgere persone con cui in un lontano passato hanno condiviso battaglie politiche che spesso portavano a scontri radicali e ciò spiega le eventuali discrepanze o reticenze.
Come ho già detto non posso che augurarmi, anche sotto l’aspetto egoistico di un tornaconto giudiziario, che i colpevoli siano trovati e che io sia giudicato per le azioni da me compiute e non per la fede politica professata, che voi possiate, seppur a distanza di tanti anni, offrire giustizia e che questa sia figlia della verità.
Per concludere questa mia dichiarazione voglio pubblicamente, con pacatezza, ma anche con forte determinazione, affermare che per questo orribile reato sono completamente innocente»,
Il primo grado si concluse per me con la condanna all’ergastolo.
Il giorno che appresi della sentenza vissi un profondo senso smarrimento.
Provai la tentazione di arrendermi, di non riconoscere la giustizia che mi stava giudicando e addirittura di non fare ricorso.
Non mi aspettavo di essere condannato all’ergastolo di fronte ad accuse totalmente inconsistenti.
La prospettiva di rimettere in gioco completamente la mia vita con un mio ritorno in carcere era cosa concreta.
Se una parte di me avrebbe voluto arrendersi, l’altra reagì.Proseguii nel dimostrare la mia innocenza.
Non mollai grazie alla mia famiglia, all’insistenza di Franca, mia moglie e del mio avvocato.
Così, con rinnovato vigore, affrontammo il secondo grado del processo, sforzandoci di smontare, dopo averle analizzate, tutte le varie tesi accusatorie. Fu un lavoro enorme, intenso che richiese uno sforzo notevole.
Trascorsi settimane facendo ricerche, acquisendo articoli e documenti nelle biblioteche, al fine di documentare meglio le date e l’inquadramento cronologico di molti fatti attinenti il processo.
Tusa mi aiutò in questo compito, mentre a difendermi ebbi anche l’avvocato Enzo Fragalà che si concentrò sugli aspetti più politici della vicenda, ma non solo.
I tempi della giustizia furono lunghi, ma alla fine fummo in grado di dimostrare la mia totale estraneità ai fatti. Appresi della mia piena assoluzione dall’estero.
Una parte di me era certa che non mi avrebbero assolto. Non avevo fiducia nella giustizia e quindi decisi che prima di tornare in carcere, se così sarebbe stato, avrei percorso ancora una volta il cammino di Santiago.
Sulla via del ritorno fui raggiunto dalla telefonata nella quale Franca mi comunicava la piena assoluzione.
Fu una vittoria, ma conquistata ad un caro prezzo perché vissi quegli anni, ben undici, con la prospettiva di non riuscire a dimostrare la mia innocenza.
Al termine di questa sofferta vicenda giudiziaria affidai un breve comunicato agli organi di stampa. Con alcune precisazioni misi la parola fine a lungo iter giudiziario.
Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni
da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 21, 2020 | Accadde Domani, News, Soldati di Ventura
ACCADDE DOMANI. 25 NOVEMBRE 1981. IL TENTATO GOLPE ALLE ISOLE SEYCHELLES NELLA TESTIMONIANZA DI TULLIO MONETA (PRIMA PARTE)
Evoluzione del golpe
Terminata la lavorazione del film I quattro dell’Oca Selvaggia, iniziò l’organizzazione del golpe. Tullio e William Dunlop Paul, il proprietario di una catena di palestre ed esperto di karate ed arti marziali, di cui si è detto sopra, che però mai aveva combattuto, si misero in moto per reclutare i mercenari che conoscevano fin dal Congo. Nel frattempo i due furono contattati dal comandante George Schroeder per organizzare insieme a lui un piano, che ai due sembrò surreale e che, quindi, non accettarono. Ma la vera ragione per cui non accettarono era che non avrebbero abbandonato Mike Hoare, che intanto teneva contatti con diplomazie e servizi segreti occidentali, e con il governo delle Seychelles in esilio. Hoare fece vedere una volta una lettera inviatagli dagli ex-ministri, che lo invitavano a compiere il golpe. Intanto l’operazione andava avanti con il reclutamento di due capitani, tre tenenti e vari graduati che erano nel Quinto Commando in Congo. Furono reclutati validi combattenti come Barney Carey, Geremiah Puren, pilota di piccoli aerei nella campagna del Congo, Peter Rohein, Kurt Priefert, Desmond Jurgen Botes, detto “Des Botes”, Charley William Duchi, detto “Charley Dukes”, Roger England, ed altri.
Tullio reclutò anche 20 uomini del Recce Commando che come abbiamo detto era un corpo speciale formato da patrioti volontari, molti dei quali provenivano da famiglie benestanti, da dirigenti amministrativi e dalla magistratura, e perfino da ex-ministri sudafricani, che venivano addestrati fino a perdere la propria personalità.
Ad esempio, dopo aver fatto 40 chilometri con zaino ed armamento, senza mangiare e bere acqua, in un ambiente piuttosto arido, tipo quello che appare nel film I quattro dell’Oca Selvaggia, girato proprio in quei luoghi, gli aspiranti commando del Recce giungevano ad un baobab, sotto cui stava seduto un istruttore che beveva una Coca Cola ghiacciata. Per gli affamati e assetati c’era solo del pane imbevuto di alcol denaturato e dell’acqua mescolata ad urina. L’addestratore, indicando un frigorifero portatile pieno di bevande ghiacciate, chiedeva: «Chi vuol bere una Coca Cola?». Chi si avvicinava per bere la bibita fresca veniva scartato in quanto non era adatto a fare parte della élite del Recce Commando. Questo era ciò che il colonnello del Recce Van der Spy raccontò a Tullio.
Nel Recce esistevano molte specializzazioni. Ad esempio c’era un corso avanzato di paracadutismo chiamato HALO, High Altitude Low Open, in cui ci si gettava da 30.000 piedi, circa 9.000 metri, con il respiratore. E ancora si insegnavano tecniche di sopravvivenza e addestramento a seguire le tracce sul terreno, apprese dai boscimani, infiltrazione in territorio nemico con marce, paracadutismo e dal mare, fusione col nemico, addestramento con le armi in uso in tutti i Paesi del mondo, (quindi armi pesanti come contraerea e artiglieria), cecchinaggio. C’erano poi corsi sugli esplosivi e sulle mine antiuomo e su come disinnescarle, alpinismo, addestramento su terreni diversi e in diversi climi. E ciò durava per mesi… Il Recce Commando era un’unità di forza permanente. All’epoca il Sudafrica era circondato da nemici e l’ANC (African National Congress) di quegli anni era ben diverso da ciò che è oggi. All’epoca esisteva una branca armata dell’ANC, l’Umkonto we siswe, la “lancia della nazione”, di cui Nelson Mandela era il presidente. Erano marxisti e compivano sabotaggi e azioni di terrorismo con vittime in bar, in ristoranti, nelle chiese. Esisteva l’infiltrazione da paesi confinanti come Mozambico, Botswana e Swaziland di forze comuniste (cubani, sovietici, tedeschi orientali, cinesi) con il compito di addestrare i loro nemici. I patrioti del Recce hanno combattuto per il loro Paese e per la libertà religiosa. Paddy, infatti, era ed è un cattolico praticante.
Tullio non avrebbe mai fatto parte di questo corpo speciale, che non “pensava”, ma che “ubbidiva” ciecamente agli ordini. I mercenari dovevano invece pensare velocemente con la propria mente e decidere velocemente il da farsi.
Il sospetto
Avvennero però cose che misero in sospetto Tullio. Intanto egli non capiva perché al golpedovevano partecipare membri dei servizi segreti come Martin Dolinchek che era entrato nel 1978 portandosi dietro pure Peter Duffy, il fotoreporter che seguì la campagna dei mercenari in Congo standosene al sicuro nel campo base. Tullio considerava Dolinchek e Duffy dei “venditori di fumo”.
Facevano parte pure agenti dei servizi come Kenneth John Kelly, detto “Blue” Kelly, unaustraliano, e Jan Olav Sydow, uno svedese che conosceva l’inglese e il russo.
Tipi “oscuri e inaffidabili” come quelli, sospettati di essere killer professionisti: che ci stavano a fare in mezzo a militari organizzati, si chiedeva Tullio?
Come mai, fallito il coup d’état, il colpo di Stato, tutti i mercenari catturati furono condannati a morte dal Regime di René, salvo Dolinchek? Come mai quest’ultimo, appena iniziato il combattimento, scomparve per mettersi in salvo in un hotel a bere birra?
Fonti confidenziali del Recce assicurano che Kevin Beck odiava Dolinchek, Duffy e Kelly, come del resto quasi tutti i Recce Commando.
Tullio aveva cercato, prima di partire per le Seychelles, di conoscere il pensiero di due dei migliori combattenti, Pieter Doorewaard e Paddy Henrick, esperti group leaders del Recce, sulle cose che lo insospettivano, soprattutto per gli accordi iniziali che venivano disattesi, facendo ritirare dal complotto ottimi ufficiali. Essi rispondevano che in questo genere di azioni poteva capitare di dover decidere di tagliare alcune cose, impossibili da realizzare. Comunque, l’azione doveva andare in porto, pur mancando le armi pesanti trasportate con uno yacht.
Tullio si chiedeva pure se c’era forse l’ordine di assassinare l’usurpatore René ed alcuni ministri chiave. Tullio fu pubblicamente categorico, perfino con Mike Hoare presente: «Noi siamo dei soldati combattenti, non degli assassini. Il lavoro sporco non lo facciamo… Né permetterò che lo facciano altri. Noi saremo nelle Seychelles come soldati dell’Occidente solo per abbattere il regime filocomunista di René e ridare il potere al presidente legittimo Jimmy Mancham. Stop. Se poi, dopo esserci ritirati dalle Seychelles e dato il potere in mano agli uomini della Resistenza, vorranno attuare le vendette sarà affare loro. E’ chiaro?»
Lo allarmava non ultimo il fatto che era stato annullato lo yacht che avrebbe dovuto trasportare alle Seychelles le armi pesanti, mitragliatrici e bazooka, già nascoste in precedenza nella villa di Hoare. Tullio sapeva che l’esercito delle Seychelles aveva autoblindo e mezzi pesanti, che non si sarebbero potuti neutralizzare con i mitragliatori leggeri AK47, in dotazione. Non c’era neanche più il C 130 per il trasporto delle armi e dei mercenari. In un incontro di Tullio e di Dunlop Paul con il maggiore Willie Ward del RecceCommando notarono che quest’ultimo faceva delle difficoltà e alla fine si ritirò… Si era ritirato anche un certo Bryan Walls del Recce Commando che nella vita civile faceva il gioielliere, ma era una professione di copertura. Pure quattro ufficiali del Recce si erano ritirati… La cosa cominciava a puzzare all’olfatto sospettoso di Tullio.
Però Mike Hoare giustificava tutto ciò che accadeva come cose che erano state decise dall’alto. Pure alcuni ufficiali dei mercenari, sentendo puzza di bruciato, si ritirarono. Tullio rimase nel commando per la fedeltà e per l’amicizia verso Hoare che aveva maturato in anni di collaborazione in Congo e in altre azioni. Non voleva che circolasse la voce che il maggiore Tullio Moneta aveva abbandonato il suo colonnello per timore di un esito negativo dell’azione.
C’era poi pure una parte di egoismo in questa decisione. Tullio si chiedeva: e se, invece, le cose fossero andate bene, come pronosticava Hoare e senza alcun spargimento di sangue, egli avrebbe perduto un’occasione d’oro per aumentare il proprio prestigio in quel mondo dove si preferisce morire piuttosto che fallire?
Comunque, per sminuire le defezioni, Hoare aveva messo Tullio sotto i riflettori del palcoscenico, dicendo pubblicamente in una riunione collettiva: «Finché ho gente come Tullio sto a posto. Voi potete andare pure via tutti.»
Giorgio Rapanelli, Ippolito Edmondo Ferrario, “Mercenario. Dal Congo alle Seychelles. La vera storia di Chifambausiku Tullio Moneta”, Edizioni Lo Scarabeo, Milano
da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 11, 2020 | Accadde Domani, News
12 dicembre 1969. Giancarlo Rognoni e la strage di piazza Fontana. Una testimonianza inedita.
(Prima parte)
Come già detto, l’eredità umana e culturale della Fenice non venne dimenticata nonostante le traversie personali e le avversità. Nonostante tutto, sotto la cenere degli anni, la brace era rimasta accesa.
Come gruppo eravamo certamente stati dispersi e divisi, ma non del tutto. Nico Azzi, più giovane di me, aveva subito una lunga e dura detenzione. So che aveva avuto dei problemi con le guardie carcerarie, e tutti quegli anni non erano stati certo una passeggiata.
Dei fatti del passato che ci avevano visti protagonisti non parlammo più.
Ci incontrammo nuovamente in alcune occasioni pubbliche, come le commemorazioni annuali a Campo X, ma anche in privato.
Una volta che Nico venne a casa mia insieme ad un altro camerata, mi avvisò del fatto che probabilmente sarei stato coinvolto nelle indagini sulla strage di piazza Fontana a Milano, in merito alla quale lui stesso era stato da poco interrogato.
Fu certamente un’avvisaglia che però non presi troppo sul serio, poiché ritenevo impossibile l’accusa di un nostro coinvolgimento nella strage.
Mi sbagliavo, e i fatti seguenti lo dimostrarono: Nico fu arrestato e io mi sarei ritrovato a far parte del processo nel ruolo di indagato.
Tutto si basava sulle dichiarazioni di un pentito, Edgardo Bonazzi, il quale asseriva che Nico Azzi in carcere gli aveva confessato che il nostro gruppo aveva avuto funzioni di supporto logistico a coloro che avevano eseguito la strage di piazza Fontana. Conoscendo bene Nico non ho mai creduto alla versione di Bonazzi; Nico non dava confidenza, magari dava l’impressione, parlandoci, di essere al corrente di situazioni, ma non lo vedo nel ruolo di chi forniva informazioni.
Bonazzi, da parte sua, non era un militante di spicco e dubito fortemente che ricevette confidenze, anche di una certa portata, da altri con cui condivise il carcere.
Occorre sempre tenere presente la funzione carceraria delle rivelazioni. Molti detenuti nel tempo hanno utilizzato il sistema della collaborazione con gli investigatori per ottenere privilegi, approfittandone ampiamente.
Nico negò di aver mai fatto simili dichiarazioni in carcere, ma ormai era troppo tardi.
La macchina della giustizia si era messa in moto e per molti anni avremmo dovuto combattere per dimostrare la nostra innocenza.
A sostenere la tesi che Nico avesse fatto simili confidenze, giunse in supporto dell’impianto accusatorio uno strano ritrovamento fatto nel 1985 in un appartamento di viale Bligny 42 a Milano.
In questo stabile, nelle soffitte all’epoca utilizzate come ricovero per sbandati, lo stesso giudice Guido Salvini aveva sequestrato un ingente quantitativo di documenti che facevano parte dell’archivio di Avanguardia Operaia.
Tra questi comparivano una serie di fogli dattiloscritti dedicati alle confidenze che Nico Azzi avrebbe fatto in carcere. Questa documentazione però al processo non ebbe alcuna rilevanza particolare (anche questo giustifica un sospetto di depistaggio), ma ci si basò sulle dichiarazioni di Bonazzi. Dichiarazioni che Bonazzi rilasciò nel 1994, a distanza di moltissimi anni dai fatti accaduti.
Secondo Bonazzi, Nico gli aveva confidato che il nostro gruppo aveva fornito ai veneti l’appoggio logistico per l’attentato del 1969.
La prima evidente incongruenza era che il gruppo della Fenice, perché di noi si parlava, nel 1969 non esisteva ancora.
E sempre nel 1969 non conoscevo neppure alcune delle persone successivamente imputate nel processo di piazza
Fontana.
Ma da lì a poco avrei scoperto meglio il teorema secondo il quale avevo necessariamente fatto parte dell’organizzazione dell’attentato.
Fui chiamato a colloquio dal giudice Guido Salvini. L’accusa che mi si muoveva in primis era quella di associazione sovversiva, forse quella anche più semplice da sostenere.
Da principio tesi a sottovalutare il mio coinvolgimento nel processo perché mi apparve poco credibile, basato com’era su accuse aleatorie.
Anche il fatto che fossi l’unico per il quale non era stato spiccato un mandato di cattura mi tranquillizzava, ma evidentemente mi sbagliavo.
Per gli altri indagati, Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Carlo Digilio, erano stati spiccati altrettanti mandati.
La mia strategia difensiva era tutta tesa a dimostrare che le frequentazioni che mi si imputavano di avere erano successive al 1969.
L’assurdità del teorema non stava tanto nella questione delle date (che come avrei dimostrato non collimavano), ma nel fatto di affermare che dalla semplice conoscenza e frequentazione di talune persone derivasse in modo incontrovertibile la mia partecipazione diretta all’attentato.
In ciò stava la gravità delle accuse mossemi insieme all’assenza di prove e di fatti specifici.
Sulla questione delle date, conobbi Carlo Maria Maggi e altri veneti sul finire del 1969, quando si verificò il rientro nel MSI del Centro Studi Ordine Nuovo.
Potrei averli conosciuti un paio di mesi prima del 12 dicembre del 1969: ma ipotizzare che da una frequentazione superficiale, fresca di poche settimane, potesse nascere l’idea di aderire al progetto stragista di persone appena conosciute è una follia. Il problema, al di là di queste date, era che dalla semplice conoscenza di queste persone derivava l’assioma dell’aver condiviso l’attentato.
Tali accuse erano poi supportate dalle dichiarazioni rese nel 1994 da Martino Siciliano.
Quest’ultimo sosteneva, a distanza di ben venticinque anni, la mia partecipazione ad una riunione tenutasi nella villa di Marco Foscari, nel luglio del 1969, nei giorni dell’allunaggio, durante la quale i rapporti tra veneti e milanesi si fecero sempre più stretti.
A smentire la mia presenza, in quella specifica data, a villa Foscari fu inaspettatamente un’informativa dei carabinieri che certificava la presenza di un gruppo di milanesi, tra i quali il sottoscritto, nella zona del Gran Sasso insieme ad altri camerati, per un campo organizzato dal Msi.
Fu a Milano che incontrai Foscari la prima volta, insieme a Siciliano stesso.
Il tramite era stato Gianbattista Cannata, amico di Foscari.
Rividi Foscari in qualche altra situazione, ma non intrecciai mai con lui rapporti di amicizia. Credo di essere andato a Villa Foscari una o due volte, in occasione di qualche festa.
Marco Foscari era un personaggio estremamente estroverso: amante della bella vita, poco alla volta aveva dissipato tutto il suo patrimonio per concedersi ogni lusso.
Per come lo conobbi era un tipo molto simpatico, catalizzatore di energie positive, ma – ripeto – molto interessato ai piaceri della vita. (continua)
Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni
da Ippolito Edmondo Ferrario | Nov 26, 2020 | Accadde Domani, News
27 novembre 1979 Assalto alla Chase Manhattan Bank.
Dimitri ed io, nel giro di poco più di una settimana, riuscimmo a pianificare l’azione che ebbe luogo la mattina del 27 novembre del 1979. Ci svegliammo all’alba, verso le cinque. Partimmo tutti da casa di Valerio Fioravanti. Io indossavo la divisa da guardia giurata. Agivo a volto scoperto. Mi presentai in anticipo rispetto all’orario in cui si presentava normalmente Mori. Erano passate le sei. Secondo i piani lui quella mattina sarebbe arrivato puntuale come sempre. Una volta giunto sul posto scesi nel garage sotterraneo della banca e raggiunsi l’ingresso riservato ai dipendenti. A quell’ora c’era un addetto delle pulizie, Giuseppe Bianciardi, e due donne che lo aiutavano. Mi presentai davanti all’ingresso come il sostituto di Mori. Non ci trovarono nulla di strano. Aprirono. Una volta dentro alla banca, manifestai le mie intenzioni di procedere con la rapina. La situazione assunse un che di comico e surreale perché faticai a convincerli di essere un rapinatore. Il fatto che avessi la pistola non sortì alcun effetto. Feci vedere la seconda pistola, dotata di silenziatore, e anche qui l’uomo delle pulizie non parve convinto e ribatté: «Be’, perché nun voi fa’ rumore…».
Alla fine dovetti mostrare le due bombe a mano Srcm per convincerli e farli rassegnare. Le due donne disperate mi dissero che in banca non c’era nulla e che era meglio che me ne andassi. L’uomo invece, comprendendo la situazione, le zittì e si rese disponibile a rendermi tutto più semplice.
«Se è venuto qui in banca è perché è sicuro di trovare soldi» disse loro, e poi rivolgendosi a me si offrì di aiutarmi a trasportare di fuori anche le macchine da scrivere. Io gli dissi che quelle erano l’unica cosa che non mi interessava. Ordinai loro di procedere con le operazioni come facevano normalmente. Si attennero perfettamente alle mie disposizioni. Accesero le luci e tolsero tutti gli allarmi. Dopodiché li feci sedere accanto a me e attendemmo l’arrivo della guardia giurata, il Mori. Per entrare in banca c’erano due porte da oltrepassare, controllate da un sistema di telecamere che ti permetteva di vedere i due ingressi e di conseguenza le persone che arrivavano. Il tutto stando seduti davanti a un monitor all’interno. Le immagini non venivano registrate. Passarono circa venti minuti prima che Mori giungesse. Io chiacchierai con le donne e l’uomo, cercai di scherzare. Lo feci per tenerli tranquilli. Quando Mori arrivò lo disarmai e lui si prestò al gioco come da accordi. Poco dopo sopraggiunsero gli altri del gruppo: Valerio Fioravanti, Alessandro Alibrandi e Giuseppe Dimitri. Massimo Carminati ci attendeva fuori in auto. Attendemmo l’arrivo dei dipendenti. La cosa divertente fu vedere come le loro espressioni sorridenti e serene nel passare la prima porta, mutassero nel varcare la seconda dove c’eravamo noi ad attenderli. Li perquisimmo tutti e li immobilizzammo con del nastro adesivo. In tutto erano quarantacinque persone. La sola a non subire questo trattamento fu un’impiegata bancaria che era incinta. La facemmo sedere su di una sedia, la tranquillizzammo e le offrimmo dell’acqua. Anche Valerio ricordo che mostrò molto riguardo nei confronti di questa ragazza. Con l’arrivo del direttore e del vicedirettore che avevano le chiavi del caveau potemmo procedere. Ripulimmo completamente il caveau, portando via tutto. L’ammontare del colpo fu di circa cinquecento milioni di lire più un po’ di valuta estera e un mucchio di traveller’s cheques. Questi ultimi successivamente furono in parte recuperati dalla polizia. Tutto filò liscio e abbandonammo la banca per fare ritorno a casa di Valerio. Questa rapina ebbe grossa risonanza anche nel nostro ambiente.
Tratto da: Domenico “Mimmo” Magnetta, Ippolito Edmondo Ferrario, Una vita in Avanguardia Nazionale, Ritter Edizioni
da Ippolito Edmondo Ferrario | Nov 23, 2020 | Accadde Domani
24 novembre 1964. Inizia l’operazione Dragon Rouge per liberare Stanleyville
L’episodio più significativo legato al loro modus operandi (dei Simba) rimane la presa della città di Stanleyville avvenuta nel settembre del 1964 quando i Simba, dopo aver messo in fuga le truppe dell’ANC, mantennero la città sotto il loro controllo per intere settimane proclamando la Repubblica Popolare del Congo guidata dal presidente Christophe Gbenye. Gli europei presenti a Stanleyville divennero ostaggi. Sotto il comando del sanguinario generale Nicholas Olenga i Simba si diedero ad ogni forma di violenza: stupri, ruberie, sevizie, omicidi. Il monumento presente a Stanleyville e dedicato alla figura del “martire” Lumumba divenne il teatro di uccisioni di massa: qui vennero condotti più di un centinaio di congolesi appartenenti al ceto medio, impiegati, intellettuali, politici, amministratori locali. Tutti vennero fucilati o fatti a pezzi, alcuni mangiati come Sylvestere Bondekwe, responsabile di un movimento politico moderato a cui fu strappato il fegato ancora vivo per essere poi mangiato dai presenti. Stessa sorte toccò al borgomastro Léopold Matabo che venne fatto a pezzi; mentre era ancora vivo e agonizzante le sue carni furono in parte mangiate e in parte destinate al macello. Morì per decapitazione. L’abate Etienne e il segretario provinciale Gabrielle Belette furono scorticati vivi e alcuni dei presenti orinarono addosso ai due oltre a mangiarne la pelle. Scene così si ripeterono per giorni.
La liberazione della città sarebbe giunta solo con l’intervento dei paracadutisti belgi il 24 novembre del 1964 che con l’operazione “Dragon Rouge” posero fine all’incubo per gli europei tenuti in ostaggio. Durante l’arrivo dei parà furono comunque massacrati alcune decine di ostaggi.
Per questa incapacità da parte dell’ANC di ripristinare l’ordine e debellare la piaga dei Simba fu dato il via da parte del governo congolese dell’arruolamento di volontari europei, i soli in grado di contrastare tale minaccia.
Tratto da: Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Maktub. Congo Yemen 1965 1969, Ritter Edizioni.
da Ippolito Edmondo Ferrario | Ott 27, 2020 | Accadde Domani, Soldati di Ventura
28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup
Leleup era un volontario belga, ma nato in Congo. «Guy morì da eroe il 28 ottobre del 1967 durante le ultime fasi dell’assedio di Bukavu. Rimase a proteggere la ritirata dei suoi compagni e cadde prigioniero. Quando il colonello Schramme con altri uomini giunse in suo soccorso, Leleup, mentre era tenuto legato ad un albero, urlò a Scharamme avvisandolo dell’imminente imboscata e permettendogli di salvarsi. Leleup fu ucciso con un colpo di pistola in fronte. Venne poi decapitato e la sua testa infilzata su una baionetta per essere portata come trofeo dai soldati congolesi dell’ANC. Questa è la vera storia della morte di Guy Leleup del Para Groupe Cobra».
Così lo ricorda in alcuni significativi passaggi il colonello Jeanne Scharamme nel suo libro di memorie Il Battaglione Léopard. Ricordi di un africano bianco: «Di tutti i nuovi provenienti dalla 6a brigata quello che mi impressionò maggiormente fu il maresciallo Guy Leleup. Era un giovane idealista che conosceva perfettamente gli indigeni e ne parlava correttamente la lingua. Solitario per natura, era mal compreso dal suo comandante, il maggiore Noddyn. Ragazzi del genere erano l’opposto di ciò che normalmente viene chiamato un “mercenario”. Non poteva andar assolutamente d’accordo con Bob Denard e il suo lavoro non era mai stato apprezzato; ma è risaputo che i caratteri energici e le nature generose si rivelano nelle avversità (…)». Compresi subito che la morte di Leleup era un fatto estremamente grave: perdevo una delle posizioni-chiave ma anche uno dei miei migliori ufficiali, un vero simbolo di ciò che stavamo tentando di salvare in Congo: la fratellanza nelle armi tra bianchi e neri».
Tratto da: Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Maktub. Congo-Yemen 1965/1969, Ritter Edizioni.