Ancora una testimonianza del Maggiore Tullio Moneta sull’epopea dei mercenari in Congo
“Non uccidetemi, non uccidetemi!”
I mercenari del 5 Commando di stanza a Baraka, la base militare lungo il lago Tanganika, compivano azioni di guerriglia contro i ribelli Simba, una, o due volte alla settimana, dietro indicazione dei villaggi congolesi, che fornivano pure scout e portatori di armi e viveri.
Senza questo aiuto i mercenari non avrebbero vinto i ribelli Simba.
Una volta, nel 1966, fu attaccato un grosso villaggio Simba nel Kivu.
Furono necessari due gruppi di dodici uomini ciascuno, più gli scout katanghesi e i portatori congolesi. La colonna di attacco era formata dal gruppo “Tiger” (tigre) del tenente Tullio Moneta e dal gruppo “Wildcat” (gatto selvaggio) del tenente Boet Schoeman.
Li comandava il capitano Peter Ross-Smith.
I gruppi venivano aggregati quando venivano attaccati forti contingenti di Simba, soprattutto quando occorrevano diversi giorni per le operazioni.
Partendo da Baraka, i due gruppi facevano percorsi diversi, di notte, per poi riunirsi prima dell’alba nei pressi del villaggio Simba.
Dopo la conclusione dell’azione, la ritirata avveniva velocemente sempre per sentieri diversi dai primi, per non essere intercettati.
Il villaggio, oggetto dell’attacco, era a circa duecento metri più in basso ed era sistemato in un bell’ordine razionale. Esisteva pure una costruzione di mattoni con tetto di lamiera.
Divideva in due il villaggio un ruscello di circa tre metri di larghezza, in cui scorreva un’acqua limpidissima.
Intorno al villaggio c’erano piantagioni di manioca.
Era l’alba e nel villaggio dormivano tutti e senza sentinelle.
Era un luogo di pace. Idilliaco…
I ventiquattro mercenari si prepararono ad attaccare in silenzio, a cinque passi l’uno dall’altro, per un fronte di cento metri, predisponendosi in due gruppi ad “L”, per il tiro incrociato. Intanto alcuni Simba si erano svegliati, predisponendosi per le abluzioni al ruscello e per la colazione.
Tacevano ancora insonnoliti, oppure parlottavano, ignari dell’attacco… Non c’erano bambini.
I mercenari, ad un segnale del capitano Ross-Smith col “walkie talkie”, scatenarono un inferno di fuoco… I Simba non tentarono una resistenza e, lasciando morti e feriti sul terreno, fuggirono abbandonando le armi e, attraversato il ruscello, si inerpicarono su per il costone di una collina, dove furono colpiti alle spalle.
Se ne salvarono pochi.
Nell’area del villaggio si contarono venti Simba morti. Nessun ribelle fu catturato.
Nessuno andò a contare i Simba uccisi sul costone della collina.
Nella costruzione di mattoni con il tetto in lamiera erano accatastate fino al soffitto centinaia di zanne d’elefante, che i Simba avrebbero ceduto ai trafficanti in cambio di armi e munizioni.
Rastrellando il villaggio, furono trovati nascosti in una capanna una donna vecchissima, con i capelli bianchi come la neve. Tullio non aveva mai visto un’africana di tarda età con i capelli di quel candore.
Insieme a lei, c’era un adolescente con una gamba poliomielitica.
Non erano di sicuro dei Simba combattenti, ma solo dei civili che vivevano con i Simba. Quindi, erano stati lasciati in vita.
Purtroppo un mezzosangue, un meticcio di Città del Capo, di nome Greyling, diceva a voce alta di voleva tagliare la gola col machete ad ambedue.
Forse per darsi delle arie. I mercenari disapprovavano l’intenzione.
“Siamo dei soldati, non dei macellai – mormoravano. Tullio, avvisato da qualcuno del suo gruppo, disse al mezzosangue di non azzardarsi a toccarli. Al che il mezzosangue rispose: “Tu non sei il mio comandante e quindi non ti obbedisco”, rimarcando in tal modo di fare parte della pattuglia dei “Wildcat”, e non delle “Tiger” di Tullio.
Il comandante del mezzosangue si chiamava “Boet” Schoeman, di circa 29 anni, di professione cacciatore di elefanti e bufali, organizzatore di safari di caccia grossa, insieme alla sua famiglia.
Era un ottimo guerrigliero. Aveva combattuto con i “Selous Scouts” rhodesiani contro i guerriglieri dello ZANU di Robert Mugabe.
Spesso andava ad esplorare la zona insieme ai katanghesi, per poi riferire alla pattuglia ove erano i Simba.
“Boet” Schoeman aveva però un difetto, una mania: era di “grilletto facile”…
Nel senso che risolveva le controversie con gli altri estraendo la pistola e facendo fuoco senza discutere… “Boet” aveva ammazzato in Sudafrica due poliziotti in borghese, poiché lo stavano vessando e volevano disarmarlo. Il giudice lo aveva scagionato, poiché all’epoca si aveva il diritto di andare in giro armati con due armi corte, pistola o revolver..
Aveva in seguito ammazzato a sangue freddo qualche Simba e freddato pure due mercenari…
Per questo motivo, quando andava a parlare con lui, Tullio Moneta levava prima la sicura alla Walther P38, cal. 9 mm parabellum, che teneva, sempre pronta, al fianco destro, o sotto l’ascella sinistra, con il colpo in canna.
Come è noto, la P38 è un’ottima pistola tedesca a “doppia azione”.
Ciò significa che quando la cartuccia è in canna e il cane abbassato, si può sparare premendo semplicemente il grilletto. In tal modo si provoca automaticamente l’armamento del cane, che colpirà poi la cartuccia e farà partire il colpo.
Tullio teneva nel serbatoio gli otto colpi prescritti, più uno in canna, pronto all’uso.
“Boet” Schoeman aveva invece una Browning 9 mm Parabellum, che non era dotata della “doppia azione”. Significa che per sparare doveva prima, col pollice, alzare il cane e poi tirare il grilletto.
Tecnicamente, l’arma era inferiore a quella di Tullio. Estraendo contemporaneamente la pistola, Tullio avrebbe sparato per primo. Però, “Boet” era velocissimo ad estrarre e a fare fuoco.
Tullio aveva visto farlo con un gattino che fuggiva dalla cucina con un pezzo di carne in bocca. “Boet” fu un fulmine ad estrarre la Browning e a fare fuoco a ripetizione sul gattino, che saltava di qua e di là per gli schizzi di ghiaia delle pallottole, mancato per due dita.
Il micio si salvò e non si fece vedere per un lungo periodo di tempo, preferendo cacciare i topi, molto abbondanti e carnosi in quelle zone equatoriali, piuttosto che rischiare di incontrare quel pazzo di “Boet” Schoeman… Che aveva pure una mira infallibile: ogni tanto, a richiesta, con un colpi di fucile FN accendeva la capocchia di un fiammifero tenuto in mano da un mercenario a venti metri di distanza… Tullio lo aveva visto fare una ventina di volte.
“Boet” Schoeman e Tullio Moneta si stimavano reciprocamente.
“Boet” chiamava Tullio con il soprannome di “Zorba”. Pure i katanghesi avevano dato a Tullio il soprannome di “Chifambausiku”, che significa “colui che si muove di notte”, oppure “colui che attacca di notte”.
A “Boet” – secondo il parere di Tullio – mancava qualche rotella.
Al punto che riuscivano a stare con lui solo coloro che non avevano una personalità propria e che, all’occorrenza, scimmiottavano il loro comandante.
Tullio ricorda che una volta catturarono in un villaggio Simba un congolese che si era nascosto.
Costui era troppo ben vestito – camicia immacolata e pantaloni perfettamente stirati – per poter essere un Simba qualsiasi. Inoltre, aveva con sé una cartella gonfia di documenti, alcuni dei quali scritti in russo
. La cartella fu confiscata per essere inviata a Leopoldville. Schoeman ordinò al congolese “pesi, pesi”, “cammina, cammina” in swahili.
Quello, invece, si dette alla fuga, ma fu fermato dopo quindici metri, colpito alla nuca, dalla pistolettata infallibile di Schoeman.
Poi, un sergente di Schoeman si avvicinò a sua volta al morto e sparò un’altra pistolettata alla testa, mentre il sangue “gorgogliava” dal foro del primo colpo…
Allo sguardo di disapprovazione di Tullio l’idiota rispose: “Dovevo pulire l’arma”. Voleva farsi bello con il suo comandante sparando pure lui al congolese morto.
In questa occasione, era necessario sparare al fuggitivo?
Quando un Africano, malgrado i piedi piatti – poiché i neri hanno i piedi piatti – si mette a correre nessun bianco potrebbe competere con lui per riacciuffarlo.
Quindi, era necessario sparare per fermarlo. Soprattutto, perché non era un congolese qualsiasi, ma un esponente dei ribelli Simba.
C’era chi, avendo una personalità più definita, non voleva rimanere con Schoeman e faceva a Tullio la richiesta di fare parte del suo plotone.
Tullio rispondeva loro di chiedere il permesso al loro comandante Schoeman. In quattro lasciarono Schoeman dopo che ottennero il permesso. Ricorda solo tre nomi di quei quattro: J. Swart, Swanepoell e Penton Ferreira.
Tullio, prima di accettarli, andò da “Boet”, che gli rispose di prenderseli.
C’era anche un motivo: egli voleva con sé Piero Nebiolo che proveniva dalla Legione Straniera e aveva combattuto nel Vietnam francese e nella battaglia di Dien Bien Phu, dove la Francia perse la sua colonia.
Tullio tergiversava, pure perché Nebiolo – un guerriero esperto e coraggioso – non voleva andare con un “pazzo” sparatore impulsivo, ed anche perché non sapeva parlare e capire la lingua inglese.
Torniamo ora al caso della vecchia e del ragazzo poliomielitico, che il mercenario Greyling voleva sgozzare.
Mentre la donna girava intorno lo sguardo terrorizzato, con gli occhi fuori dalle orbite, il ragazzo implorava in francese: “Il faut pas me tué, il faut pas me tué… Non uccidetemi, non uccidetemi”.
Tullio rispose al ragazzo: “No, nessuno ti ucciderà!”.
Poi, rivolto a Greyling, il mezzosangue, disse: “Come ti permetti di fare queste cose? Che razza di soldato sei? Non ti vergogni? Se ti azzardi a fare loro del male, ti ammazzo con le mie mani”.
Mentre diceva a Greyling queste minacce, anche gli stessi commilitoni esprimevano il loro malumore per la crudeltà di quel mezzosangue sudafricano.
Poi andò dal comandante Schoeman.
Anche in questa occasione, come faceva sempre, Tullio tolse la sicura alla pistola e andò incontro a “Boet” Schoeman.
“Senti, “Boet”, c’è là quel tuo mezzosangue, quel Greyling, che vuole tagliare la gola a quella vecchia e a quel ragazzo poliomielitico”.
Fissando “Boet” negli occhi, gli disse. “Se qualcuno farà del male a quei due, a quella vecchia e all’altro che è poliomielitico, è la volta che mi arrabbio sul serio. E’ chiaro, “Boet”?”
Schoeman si mise a ridere e avvenne il miracolo. “Zorba, non ti preoccupare, nessuno farà del male a quei due. E poi è domenica… Adesso ci penso io – promise.
Boet si avvicino a Greyling e gli intimò: “Non azzardarti a toccare questi due! Okay?”
Greyling non tentò neanche di aprire la bocca.
Tacque e si allontanò a testa bassa.
Sapeva bene che se si fosse azzardato a replicare, pure con lo sguardo, il capitano Schoeman avrebbe estratto fulmineo la pistola e gli avrebbe sparato in bocca. Era una cosa risaputa.
La prima cosa che dicevano ai nuovi arrivati era: “Obbedisci sempre al tenente “Boet” Schoeman e non replicare mai. Ne va della tua vita”…
Intanto, il ragazzo, che tremava e batteva i denti dal terrore, aveva avuto un attacco di diarrea, che gli colava dai calzoncini lungo le gambe… Schoeman ordinò ad un katanghese di caricarsi il ragazzo sulle spalle
e di metterlo al sicuro, insieme alla vecchia in un capanna fuori del villaggio.
Il katanghese non voleva caricarsi sulle spalle il ragazzo per non sporcarsi la schiena, ma uno sguardo di Schoeman gli fece capire di obbedire senza replicare, per non finire ammazzato.
Era pure certo che Schoeman non avrebbe chiesto al tenente Mutambala, che comandava i katanghesi, il permesso di sparare a quel suo soldato katanghese: avrebbe estratto dalla fondina la pistola e fatto fuoco.
Nella jungla i comportamenti sono diversi da quelli delle truppe regolari, burocratiche e rispettose della gerarchia.
Nella giungla, o si è rispettati e temuti, o si rischia la vita con il “fuoco amico” alla prima occasione.
Mentre il katanghese trasportava il ragazzo poliomielitico verso una capanna, la vecchia si appoggiava al braccio di Tullio, dicendogli “pole, pole”, ossia di camminare lentamente.
Tullio sentiva il contatto della mano della vecchia sul suo braccio, provando nel cuore una strana, umana dolcezza…
Schoeman fece portare nella capanna pure dei viveri per la vecchia e per il ragazzo.
Poi, i katanghesi ebbero l’ordine di bruciare il villaggio.
Essi, felici, lo fecero così bene che dopo poco Tullio e i mercenari si trovarono circondati dalle fiamme, rischiando di finire arrosto.
Si salvarono bagnandosi nel ruscello e correndo lungo il suo letto fino ad uscire dal villaggio.
Si accorsero, poi, che pure la capanna in cui erano la vecchia e il ragazzo aveva preso fuoco e i due rischiavano di morire tra le fiamme. “Boet” Schoeman dette ordine di tirarli fuori.
Due katanghesi si bagnarono i vestiti ed entrarono nella capanna in fiamme, traendo fuori la vecchia e il ragazzo, senza neanche una bruciatura.
Li portarono lontano dalla capanna in fiamme e li misero in un luogo sicuro. I viveri erano andati bruciati con la capanna, ma lì c’era un campo di manioca e i due non sarebbero morti di fame.
Il maialino e le zanne d’elefante
In questa vicenda sono da menzionare due episodi degni di essere immortalati in una sequenza da fiction, tanto sono al di fuori del comune attacco guerrigliero.
Il capitano Peter Ross-Smith aveva appena dato l’ordine del fuoco allo schieramento del tenente Tullio Moneta, dove c’erano anche alcuni degli “wildcat” di Schoeman, quando uno di questi, in sella ad una bicicletta arrugginita e con le ruote prive di tubolari, trovata evidentemente un attimo prima nella savana, si gettò a capofitto, pedalando verso il villaggio.
“Fermi, fermi tutti, cessate il fuoco! – gridò Ross-Smith – Ma chi è quel pazzo?”
Qualcuno disse: “Ma… ma quello è Sporos… E’ impazzito!”
Quando il mercenario in sella alla bicicletta fu fuori della linea di tiro, il fuoco ricominciò.
Sporos era un greco sempre taciturno, che aveva cominciato come mercenario nella precedente ribellione del Katanga del 1961, con Ciombè. Sporos conosceva personalmente Ciombè. Tullio aveva avuto occasione di vedere con quale cordialità quel grande politico congolese parlava con Sporos.
Intanto la battaglia era finita, con i Simba morti, o fuggiti. Tutti pensavano che pure Sporos fosse morto…
Mentre scendevano per occupare il villaggio, il greco riapparve, ansante, mentre risaliva la china.
Quando il capitano Ross-Smith lo vide gli gridò: “Ma che cazzo hai fatto?”
Sporos, raggiante, gli rispose: “Pork!…” indicandogli un maialino scuro, che portava sulle spalle, morto.
L’altro fatto fu cosa avvenne con le zanne d’elefante accatastate nella casetta di mattoni. Sarebbe stato un affare ricchissimo se le avessero trasportate a Baraka come preda di guerra. Purtroppo, i camion della spedizione erano distanti parecchie miglia da quel villaggio. Le zanne sarebbero state quindi bruciate con i lanciafiamme.
Piero Nebiolo chiese a Tullio di mettergli alcuni portatori congolesi a disposizione per portarsi via alcune di quelle zanne. Tullio rispose che i portatori servivano per trasportare le munizioni e i viveri, molto più importanti di quelle zanne d’avorio. Allora Nebiolo, prima che venisse bruciato il deposito, prese tre zanne di elefante non molto pesanti e se le caricò sulle spalle.
Dopo qualche centinaio di metri, Nebiolo abbandonò una zanna di elefante, quella più pesante…
Dopo un’altra mezzora di cammino veloce nel sentiero della savana, ne buttò un’altra…
Dopo un altro chilometro Nebiolo abbandonò la terza zanna, la più piccola che gli era rimasta: aveva le lacrime agli occhi…
Testimonianza raccolta da Giorgio Rapanelli
Primavera 2021. Tempo di noir
Ad aprile tornerò in libreria.
Un nuovo personaggio vedrà la luce, Diviso tra una Milano incantevolmente innevata e Bonassola.
Atmosfere invernali cupe, musica rock, intrighi finanziari.
Poco più di un mese per raggiungere la verità.
E poi ci sarà lui, il banchiere di Milano, a surfare il Kali Yuga.
Stay Tuned
Il macellaio del Verziere
Ripropongo qui di seguito, in una veste nuova e rivisitata, un racconto noir uscito qualche anno fa nell’antologia “Delitti alla milanese” curata da Gianluca Margheriti.
Buona lettura
Il macellaio del Verziere
Milano, dicembre del 1965
“Non è possibile? Era tutto quello che avevamo…Come faremo desso?! Sei un maledetto…” mormorò la donna incredula mentre singhiozzava.
Lei e lui erano nel retro del loro negozio. Il marito la guardava immobile, non sapendo cosa dire o fare.
Non provava vergogna, ma semmai fastidio nel dover rendere conto alla moglie di ciò che aveva fatto.
Tutti i nodi vengono al pettine, così si dice, ma Luigi aveva sperato di poter risolvere da solo quel debito che ogni giorno era diventato sempre più grande. Un’illusione che aveva nutrito per mesi.
“La giocata… la prossima giocata sarà quella fortunata” diceva a sé stesso quando usciva dalla bisca del Tino, in quel sottoscala fumoso della Vetra, dove trascorreva sempre più spesso le sere.
Rincasava in piena notte, barcollante, con i sensi anestetizzati dal vinaccio nero.
A volte si doveva appoggiare ai muri dei palazzi, colto dal senso di vertigine che l’alcool gli induceva.
Non di rado si fermava a vomitare per strada, da solo, alla stregua di un reietto.
Si riprometteva che dal giorno dopo sarebbe cambiato tutto, giurava a sé stesso che avrebbe chiuso con quella vita dissoluta.
I soldi ormai non bastavano più, la posta in gioco era sempre più alta.
E poi c’era lei, Anna, che aveva il potere di chiedergli qualsiasi cosa.
Quando lei gli si metteva tra le gambe lui era in suo potere, ammaliato da quegli occhi neri.
La donna, oltre a succhiargli il cazzo, sembra volesse ingoiargli l’anima.
“Non abbiamo più nulla” disse Maria che aveva investito l’eredità dei genitori in quel piccolo negozio di macelleria dopo anni di sacrifici.
Tutto sembrava perduto. Il conto corrente era stato svuotato dalla follia di Luigi, soggiogato dal demone del gioco e della lussuria.
La fine del mese non era ancora arrivata, ed erano già in ritardo con i fornitori da pagare.
Ma quelle che Luigi usava come scuse, errori della banca, come li chiamava lui, si erano ben presto rivelate un castello di bugie.
La lettera inviata dall’istituto stesso e aperta da Maria quella mattina stessa non lasciava dubbi.
Il conto era in rosso di parecchio e le spese continuavano ad aumentare.
Quella mattina Maria si era recata in piazza Fontana, presso la banca di cui erano clienti, scoprendo gli ammanchi.
Luigi aveva continuato a prelevare soldi e ora non avevano più nulla.
A quel punto il marito non aveva più potuto nasconderle la verità.
Se non avessero rispettato i trenta giorni di tempo concessi per saldare gli arretrati, le cose si sarebbero complicate.
Per non parlare di tutte le spese che sarebbero ancora arrivate.
“Vedrai, troveremo una soluzione. Se solo avessi ancora qualche soldo da giocare, potrei fare il colpo.
So che posso vincere” obbiettò lui nella sua follia, non rendendosi conto che la bisca era truccata .
Tino, che aveva un night-club, e gestiva la bisca nello scantinato attiguo riadattato a locale, aveva visto in Luigi il perfetto pollo da spennare, esattamente come quelli che l’uomo vendeva ai propri clienti del Verziere.
Tino aveva l’occhio clinico per individuare i soggetti deboli e vulnerabili; con la complicità di Anna aveva lentamente ridotto Luigi sul lastrico.
Tutto era iniziato una sera come tante, la prima volta che Luigi era andato con degli amici al night-club.
Complice lo champagne, il macellaio aveva parlato del lavoro, della sua bottega di carni che era la più rinomata del quartiere e del fatto che dopo anni di stenti era riuscito a uscire dalla miseria.
Aveva mostrato un Rolex d’oro al polso che aveva comprato da un non meglio precisato amico che gli procurava ori e preziosi a buon prezzo.
Quella stessa sera Tino aveva invitato Luigi ad andare a giocare da lui, in un ritrovo privato dove si poteva giocare soldi lontano, da occhi indiscreti.
Un posto per uomini di mondo, come lo aveva definito lui stesso sapendo di fare breccia nel macellaio. Lo aveva radiografato subito.
Gran lavoratore Lugi Brambilla, ma con un tallone d’Achille, un punto debole: per avere quello che ora possedeva aveva dovuto sudare e faticare come aiuto garzone nella stessa macelleria che poi rilevato, insieme a sua moglie, dal vecchio signor Cagnazzi.
Dunque una vita di privazioni. Ora che aveva raggiunto una certa solidità economica, Luigi voleva provare il brividio del vizio e di tutto ciò che fino a quel momento gli era stato precluso.
Le prime sere aveva pure guadagnato qualcosa a vincendo a poker e a scopa, ma poi la fortuna aveva cominciato a voltargli le spalle.
Se al gioco non era più fortunato a consolarlo c’era lei, Anna, che gli alleviava le pene del giocatore sfortunato, facendogli vivere sensazioni che sua moglie Maria, donna timorata di Dio, gli negava.
***
“Tu sei pazzo? Sei un mostro” commentò Maria sgomenta di fronte alla proposta del marito.
Era sera e stavano cenando a casa, nel loro appartamento di via Maddalena.
Ormai ogni giorno non facevano che discutere della situazione in cui si erano ritrovati.
“Allora preparati a perdere tutto. Ci pignoreranno il negozio, ci porteranno via tutto. Senza il negozio non abbiamo altre entrate” aggiunse lui cercando di convincerla.
“Dimenticavo, c’è anche l’affitto di casa. Con quali soldi lo pagheremo? Non abbiamo più nulla” aggiunse con un tono arrogante.
Luigi al posto di mostrarsi pentito per quello che aveva fatto, trattava la moglie con disprezzo, quasi fosse lei la causa che lo aveva spinto ad una vita dissoluta.
“Ci sono i gioielli di mia mamma. Forse con quelli potremo tirare avanti” abbozzò Maria mortificata.
“Con quella robetta ci paghiamo forse un mese di affitto. Se non facciamo come dico io, devi essere disposta a vivere in strada. Quella è la fine che faremo. Dovremo cambiare quartiere, a meno che tu non voglia farti vedere dalle tue clienti in mezzo ad una strada a fare la questua”
“Qualcuno sarà disposto ad aiutarci!”
“Tu dici?! Ti ricordi quando avevamo bisogno di un prestito e nessuno ci ha voluto dare una mano? Adesso sarebbe anche peggio”
“Ma io non voglio fare del male a nessuno” piagnucolò lei.
“Tu non dovrai fare nulla, ci penserò io. Vedrai che sarà più facile di quello che credi.
E poi il Carlino è sempre bevuto. Non si ricorderà di nulla” fece lui, biascicando un pezzo di michetta del giorno prima, ormai rafferma.
***
Il giorno successivo in negozio la carne scarseggiava. Era rimasto del pollame, della polpa per bistecche, polmoni, interiora, nodini di vitello.
I clienti quel giorno di dicembre, freddo e piovoso, guardavano le vetrine della macelleria e tiravano avanti.
Era come se intorno al negozio di Luigi cominciasse a respirarsi aria di disgrazia.
Poco prima di mezzogiorno entrò, come quasi ogni giorno, Carlino.
Sessant’anni, vedovo da una decina, aveva ereditato da una vecchia zia due cascine nel lodigiano, due floride aziende agricole che gli garantivano ottime entrate, oltre a due appartamenti in via Broletto che aveva messo a frutto.
Carlino si era così assicurato la vecchiaia e non solo quella.
Aveva il vizio delle prostitute e del bere. Un tempo era stato un bell’uomo e forte del suo fascino, ci provava con tutte le donne del quartiere, sposate e non.
Un Don Giovanni alla milanese, amante del cibo e delle forme giunoniche.
Nonostante Maria non fosse né giunonica, né tantomeno appariscente, Carlino aveva un debole per quella donna sempre affabile e gentile, sorridente con i clienti. Nel quartiere si diceva che facesse anche lo strozzino.
Prestava soldi alla gente in difficoltà ed era spietato se qualcuno pensava di gabbarlo.
Girava voce che avesse un amico siciliano, che lavorava al mercato ortofrutticolo, al quale affidava il recupero dei crediti.
“Buongiorno Luigi, Buongiorno Maria” disse entrando nel negozio e guardandosi intorno con aria perplessa.
“Buongiorno signor Carlo” avevano risposto i coniugi Brambilla, scambiandosi uno sguardo d’intesa.
“Che cosa le posso dare oggi?” gli domandò Luigi più affabile del solito.
“Lugànega. Oggi voglio la vostra lugànega. Me la cucino col vino rosso” annunciò l’uomo, soddisfatto del proposito culinario del giorno.
Luigi fece un’espressione vagamente dispiaciuta.
“Non l’abbiamo ancora preparata. Se ha pazienza nel pomeriggio gliela facciamo trovare fresca come piace a lei” fece il macellaio accomodante.
Carlino bestemmiò.
“Venga nel pomeriggio, alla riapertura. Gliela do io, non appena finiamo di farla” si premurò di aggiungere Maria.
La donna sembrava a disagio.
“Ghe nient chi, ostia” sibilò Carlino riferendosi al bancone vuoto.
“Ricordati che oggi non ci sono tutto il pomeriggio e devi fare banco e cassa” aggiunse Luigi rivolgendosi alla moglie.
“Il signor Carlino può venire anche prima dell’apertura.
Io in pausa non mi muovo da qui” specificò Maria, con uno strano sorriso indirizzato all’uomo.
“Fai come vuoi. Io tra poco devo andare” aggiunse Lugi.
Quelle parole innescarono strani pensieri nella mente di Carlino.
Biascicò qualcosa e parve rabbonirsi. Fece spallucce.
“Allora vengo dopo pranzo” disse prima di congedarsi.
***
Maria era immobile, incapace di reagire. Accanto a lei c’era il bicchiere di grappa, ancora mezzo pieno. Carlino la sovrastava, tenendola forte per il collo con le sue grosse mani.
Lei era appoggiata al tavolaccio, con il freddo del piano di marmo che le faceva indurire i capezzoli dei seni schiacciati.
L’uomo, ubriaco, cercava, senza riuscirvi, di slacciarsi i pantaloni.
Le sue dita tozze sembravano incapaci di sfilare il bottone dall’asola. Stava lottando anche con la cintura, ma non voleva mollare la presa su Maria. L’idea di averla lì, nel retro negozio, disponibile a farsi montare, lo faceva impazzire.
Barcollava per l’alcool; per reggersi in piedi la schiacciava giù.
Maria aveva il fiato strozzato e digrignava i denti.
Nelle narici sentiva l’odore intenso del sangue e della carne che su quel tavolo veniva macellata.
I minuti parvero infiniti.
Alla fine riuscì a denudarsi e a prendersi in mano il pene. Maria lo sentì tra le natiche che premeva.
Poi un grugnito, rauco, animalesco, si levò alle sue spalle.
La donna provò una strana sensazione di umido sulle guance, come se avesse qualcosa di bagnato l’avesse toccata. Carlino lentamente abbandonò la presa, permettendole di tornare a respirare. Maria ansimava col fiato rotto, incredula più per la situazione nella quale si era ritrovata, che per il resto.
Era mezza nuda, i capelli scarmigliati, la gonna arrotolata sui fianchi, sgualcita, le mutande strappate.
Si voltò e rabbrividì. Carlino la guardava incredulo, tastandosi il collo con la mano destra, in un gesto frenetico. Aveva la bocca distorta in una smorfia di stupore e sgomento. Non poteva essere vero.
Era in piedi davanti a lei coni pantaloni abbassati, il cazzo semi turgido che penzolava.
Le dita della sua mano avevano incontrato, sgomente, il freddo acciaio della mannaia che Luigi, da dietro, gli aveva conficcato alla base del collo. Era stato un colpo netto, come quando c’era da tagliare l’osso dei nodini.
La lama era penetrata nella carne come se fosse burro. Il sangue era schizzato fuori, zampillando sulle guance piene della moglie del macellaio. Carlino non provò dolore nel sentire che la vita gli scivolava via nel retrobottega della macelleria dei coniugi Brambilla.
Almeno così parve a Maria che lo vide accasciarsi piano, in un rantolo osceno che durò pochi istanti.
***
“Ho dovuto farlo… Quel maiale schifoso ti voleva fare. Ha avuto quello che si meritava” sibilò Luigi stralunato, con gli occhi neri che sembravano uscirgli dalle orbite e un ghigno bieco che gli deformava il volto pacioso.
Carlino giaceva a terra morto con la esta quasi staccata dal collo, con il sangue che andava formando un lago scuro, denso e spesso.
“Dovevamo solo farlo bere! Adesso che cosa facciamo?!” strillò Maria portandosi le mani al viso.
Era disperata e inorridita.
Luigi per tutta risposta, osservando il cadavere con odio, vi sputò sopra in segno di disprezzo.
“Non startene impalata. Stasera andrò a ripulirgli la casa. E adesso diamoci da fare. Vai a mettere il cartello che oggi restiamo chiusi. Abbiamo tanto lavoro da fare- le ordinò il marito che fin dall’inizio aveva pensato di far fuori Carlino.
“Ci arresteranno…La polizia ci scoprirà, finiremo…”
“Taci e fai quello che ti dico- le urlò lui con aria spiritata.
In quel momento avrebbe potuto uccidere anche lei se non avesse obbedito.
Luigi aveva perso ogni freno inibitorio o remora morale.
Avrebbe portato a termine il suo folle progetto con la complicità della moglie. La donna non aveva alternativa.
Quel pomeriggio di dicembre la macelleria dei coniugi Brambilla al Verziere rimase chiusa anche se era un giorno della settimana. Nessuno ci fece caso, visto che ormai negli ultimi tempi nel negozio la carne scarseggiava.
Il cadavere del Carlino venne spogliato.
Maria ne avrebbe bruciato i vestiti nella stufa a carbone di casa la sera stessa, riducendoli in cenere. Una volta messo sul tavolaccio, nudo, senza più vita, il macellaio del Verziere provò uno strano piacere nell’avere a sua completa disposizione il corpo di un uomo che un tempo lo metteva in soggezione.
Per prima cosa volle evirarlo e castrarlo. Mise da parte i testicoli e il pene che avrebbe utilizzato successivamente.
Poi si dedicò con tutta la sua perizia al cadavere.
La dissezione richiese ore di lavoro. Andò avanti fino alle dieci di sera. Fu un’operazione bizzarra, ma istruttiva al tempo stesso. Per uno abituato alla macellazione di animali fu come provare qualcosa di nuovo, un nuovo campo di sperimentazione.
Non provò disgusto, ma procedette senza fretta, cercando di non buttare via nulla, esattamente come si faceva con la carne di maiale.
La sera stessa, dopo la mezzanotte, il macellaio si introdusse nell’appartamento dell’uomo che abitava in via Laghetto. Sapeva esattamente dove abitava perché in passato gli aveva consegnato la carne a casa.
Nessuno si accorse di lui. A quell’ora il quartiere era deserto. Frugò in tutta la casa e alla fine trovò quello che sperava: orologi, alcuni di valore, contanti e gioielli, per lo più ori. Probabilmente erano i preziosi che la gente gli dava in pegno. Setacciò la casa da cima a fondo.
Verso le tre del mattino, in silenzio, se ne andò.
Quando tornò a casa trovò Maria a letto che dormiva profondamente.
Dal giorno successivo la macelleria dei coniugi Brambilla riaprì e il bancone tornò lentamente a essere rifornito di carne. Quello che avevano in gran quantità era la luganega. Ce n’era tanta, a rotoli lunghissimi.
Aveva un aspetto chiaro, forse un po’ esangue, ma era fortemente profumata grazie all’ aglio, al pepe e al finocchietto che Luigi aveva abilmente dosato. Aveva poi aggiunto il brodo di carne, il Marsala e il grana padano per rendere perfetto l’impasto macinato.
In pochi giorni la esaurì tutta e alcuni dei clienti la ricomprarono più di una volta facendogli i complimenti per quanto era buona. Luigi sorrideva, ringraziandoli. Non poteva dire loro che l’ingrediente segreto era Carlino.
Itinerari sotterranei a Milano. Putridarium del santuario di San Bernardino alle Ossa
Putridarium del santuario di San Bernardino alle Ossa
Ubicazione. Piazza Santo Stefano.
Mezzi pubblici. Linee tranviarie 12, 15, 23 e 27; linee automobilistiche 54, 60 e 84; metropolitane M1 (St. Duomo) e M3 (St. Duomo).
Visita. Aperti al pubblico solo il santuario e la cappella dell’ossario.
Contatti. Santuario di San Bernardino alle Ossa, sito Internet: sanbernardinoalleossa.it.
Si tratta di un particolare sepolcreto ipogeo forse risalente al XII secolo, situato al centro dell’ottagono che compone la parte principale e monumentale del soprastante Santuario di San Bernardino alle Ossa, edificio d’epoca successiva orientato lungo gli assi cardinali con ingresso a sud.
L’accesso al putridarium è chiuso da una grande grata a pavimento in ferro e ottone in cui campeggia la scritta: «novo hoc templo / ad satisfaciendum / comm. erga defunctos implorantes / s. bernardini sodales / novum hoc sepulcrum sibi et posteris suis / p.p. anno domini mdccliv».
Una ripida e stretta scala in muratura di dieci scalini conduce all’aula sotterranea (5 x 6 metri circa) di cinque lati, la cui geometria pentagonale irregolare è stata dettata dalla presenza di una parete preesistente in posizione nord ovest.
La volta a botte di laterizi ha le arcate posizionate lungo le pareti est e ovest e il cervello di volta è posto al centro dello sviluppo longitudinale, mentre un arco trasversale di sostegno si trova nel punto d’ingresso.
Lungo i lati abbiamo ventuno nicchie in muratura dove sono alloggiate le sedute in lastre di cotto per la decomposizione dei corpi.
Hanno una doppia inclinazione su sedile e schienale, tutte uguali, con foro al centro di convergenza e la sezione della seduta è di tipo circolare, in pianta e in alzato, per favorire la raccolta dei liquidi verso il deflusso; il sistema di scolo ne prevede la raccolta, l’incanalamento e lo smaltimento.
La raccolta avviene dai sedili che, data la loro inclinazione, raccolgono i liquami in bocche quadrangolari poste, come detto, sul fondo delle sedute.
L’incanalamento avviene attraverso piccole condotte in cotto che sbucano sul piano di calpestio alla base dei sedili stessi. Il pavimento della sala ha le pendenze che dai lati convergono in un unico punto in cui si apre un pozzetto circolare la cui funzione era lo smaltimento.
In un momento successivo sulla sua bocca è stato posto un grande prisma modanato di granito, la cui base presenta quattro piccole aperture passanti che permettevano il deflusso dei liquidi nella sottostante cavità.
Su di un lato è incisa una data (1764?) ed è sormontato da una piccola croce di ferro.
Lo studio è stato condotto nel maggio del 2010 grazie alla disponibilità di Monsignor Gianni Zappa e le operazioni di rilievo sono state dirette dall’architetto-speleologo Roberto Basilico, dell’Associazione S.C.A.M.-F.N.C.A.
Dal santuario un corridoio conduce all’attigua Cappella dell’Ossario il cui apparato decorativo è costituito da teschi e ossa.
Il complesso è interessante sia perché si tratta d’architetture del passato non usuali sia perché comunicano un particolare approccio all’unica certezza che abbiamo in vita, quella della morte.
Taluni colgono il solo aspetto diciamo “sensazionalistico” o, superficialmente, quello definito “macabro” della cappella e del putridarium, forse senza interpretare con la necessaria riflessione il messaggio che ancora oggi sono in grado di trasmetterci.
Non neghiamo che la fretta non solo “meneghina” tende ad accantonate taluni aspetti del vivere quotidiano, ignorandoli e quindi non meditandoli per tempo.
Tratto da Alla scoperta di Milano Sotterranea, Ippolito Edmondo Ferrario, Gianluca Padovan, Newton Compton Editori, 2018
Itinerari sotterranei a Milano. Rifugio antiaereo N. 56
Rifugio antiaereo N. 56
Ubicazione. Piazza Giuseppe Grandi.
Mezzi pubblici. Linea tranviaria 27; linee filoviarie 90, 91 e 93; linee automobilistiche 45, 62 e 66.
Visita. Occasionalmente aperto al pubblico.
Contatti. Comune di Milano, sito Internet: comune.milano.it.
L’anno seguente, nel 1936, è ultimato il rifugio di Piazza Grandi, progettato dall’Ufficio Tecnico del Comune di Milano e realizzato in fase con la soprastante fontana monumentale.
Tanto la piazza quanto la fontana sono dedicati all’architetto Giuseppe Grandi, esponente della Scapigliatura milanese, noto per avere progettato il monumento alle Cinque Giornate e di cui si parlerà più avanti perché al di sotto è stato ricavato il rifugio pubblico N. 8.
La fontana è composta da una vasca rettangolare in pietra chiara, in un angolo sovrastata da una torre anch’essa in pietra dalla cui sommità sgorga a cascata l’acqua.
Nel corso dei decenni si è formata una pronunciata concrezione calcarea, ricoperta da muschio verdissimo, che si è deciso di mantenere in quanto rafforza il significato stesso della natura rigogliosa e prorompente.
L’angolo opposto è occupato da una statua in bronzo, l’uomo proteso verso lo specchio che simboleggia lo stupore innanzi alla bellezza della natura che dona il prezioso liquido.
Il rifugio, o meglio il bunker in cemento armato, doveva essere segreto e la fontana aveva innanzitutto la funzione di “mascherarlo”.
La sua destinazione ci è ignota, ma in ogni caso non venne mai ultimato nei dettagli, rimanendo privo dei portelloni metallici e dell’impianto di ventilazione, filtrazione e rigenerazione dell’aria.
Con l’inizio della guerra è destinato a rifugio pubblico e identificato con il N. 56.
Ha la pianta rettangolare di 23 x 17 metri; l’interno è diviso in 23 “celle” di cui le sole sei centrali adibite a rifugio vero e proprio, per una capienza complessiva di 450 persone.
In una scheda compilata dal Comune di Milano in tempo di guerra si legge che aveva una capacità inferiore, ovvero di 430 persone, ed era considerato «Ambiente popolare».
Curiosamente, pur rimanendo sotto una fontana, non era dotato di acqua potabile corrente.
Eppure se lo visitate vedrete che in ben quattro punti le scritte d’epoca indicano: «acqua potabile» in prossimità di ganci metallici infissi nelle pareti.
Grazie anche alle testimonianze di chi lo utilizzò, sappiamo che ai ganci erano appesi secchi metallici pieni d’acqua e accanto erano assicurate con un cordino le tazze di metallo smaltato con cui attingere e bere.
A seguito del restauro progettato e diretto dall’architetto del Comune di Milano Alfredo Bonfanti, lunedì 27 febbraio 2017 fontana e rifugio sono stati inaugurati.
I locali sotterranei sono stati ripuliti mantenendo le numerose scritte d’epoca in vernice nera.
L’impianto d’illuminazione, pur non essendo quello d’epoca in quanto asportato a fine guerra, svolge egregiamente la propria funzione.
Non è “invasivo” e con discrezione ricalca in parte il tracciato originario su cavetti metallici, alimentando numerosi faretti dotati di sensori di movimento che illuminano solo gli ambienti percorsi dai visitatori.
L’intento è di aprire a scadenze fisse questo impianto, eccezionale per la sua originale costruzione e collocazione.
Tratto da Alla scoperta di Milano Sotterranea, Ippolito Edmondo Ferrario, Gianluca Padovan, Newton Compton Editori, 2018