Uno scrittore che non ti aspetti. Vis a Vis con Ippolito Edmondo Ferrario.
Di S. Maugeri
In una tarda mattina di novembre mi ritrovo a percorrere le vie ancora poco affollate del cosiddetto Quadrilatero della Moda milanese. Ho appuntamento con lo scrittore milanese Ippolito Edmondo Ferrario. Mi accoglie in quello che è il suo luogo “eletto” per scrivere, in cui prendono forma i suoi scritti e nascono i suoi personaggi. L’ambiente mi sorprende per eleganza ed eccentricità, tra opere d’arte, motociclette e attrezzi ginnici.
Lo scrittore milanese, classe 1976, di fronte ad una tazza di caffè nero fatto con la moka, senza zucchero, si concede per una lunga intervista alla sottoscritta.
Partiamo dal tuo ultimo romanzo pubblicato, “Il banchiere di Milano”, edito dalla Fratelli Frilli Editore. Che cosa puoi dirci della storia e del protagonista, il banchiere Raoul Sforza?
Le migliori parole che tratteggiano Sforza sono contenute in un passo nel libro: La sua aria altera e sprezzante, unita a un’assoluta eleganza nel vestire, non lo facevano passare inosservato. Nella mano destra stringeva un bastone da passeggio, liscio, nero, sormontato da un teschio di avorio fossile finemente scolpito.
Alto e slanciato, aveva una folta chioma di capelli un tempo biondi e ora color cenere. Scendeva i gradini delle scale del tribunale con passo sicuro. I tratti del viso erano regolari, la carnagione tendente al pallido, la fronte alta. In Raoul si coglieva il portamento di un antico condottiero italiano, risoluto, spigoloso e arcigno. Il suo sguardo era ciò che di lui non si dimenticava facilmente: due occhi profondi e scuri come quelli di un lago alpino in una giornata senza sole. Occhi che mettevano in soggezione. Alcuni sostenevano che aveva un’espressione malvagia per natura.
Per quanto concerne la storia che lo vede protagonista, posso dire che si tratta di un intrigo finanziario e politico animato da personaggi verosimili a quelli a cui le cronache di questo paese ci hanno abituato negli anni. Non ho dovuto inventare molto, al contrario di quello che si potrebbe pensare…
Avendo letto, e apprezzato, questo romanzo ho avuto l’impressione che tu abbia un debole per i personaggi non politicamente scorretti. È soltanto una mia impressione o c’è del vero?
Partendo dal principio che la definizione di personaggi politicamente corretti o viceversa scorretti la trovo priva di senso e fuorviante (naturalmente senza offesa), mi piace creare personaggi che possano sorprendere e che siano il più possibile lontani da schemi e preconcetti. L’affezione ad un personaggio da parte del lettore è la cosa cui tengo di più in assoluto. Riuscire a crearla inseguendo percorsi non convenzionali è fonte di soddisfazione.
Comunque, Raoul Sforza rimane un antieroe…
Sì, nella banalità del termine. Io lo considero troppo poliedrico per essere etichettato in qualche modo. La ricerca di un’eventuale morale non mi compete. Anzi direi che Raoul esula dal concetto stesso di una ricerca di una morale condivisa. Anche qui mi sento di proporre poche righe che meglio di altro identificano la natura di Raoul e che lui stesso riporta a sua volta in quanto suggeritegli da un amico: L’unica cosa che conta è l’audacia dello sforzo e non importa se esso sia finalizzato al bene o al male perché tanto tutto decade, si sbriciola. Si sfascia.
Resta il fatto che il libro sta andando molto bene, visto che nel giro di qualche mese la casa editrice ha pubblicato già due ristampe. Ci sarà un seguito?
Sì, in questi giorni ho consegnato all’editore il secondo libro con protagonista il banchiere milanese. Non è propriamente un seguito, ma una storia a sé stante, complementare naturalmente al primo romanzo.
Qualche anticipazione senza spoilerare troppo?
Il titolo sarà I diavoli di Bargagli.
Nient’altro? L’ambientazione? (Ippolito sorride sornione intuendo che sto cercando di farlo parlare più di quello che vorrebbe…)
Come si evince dal titolo la storia è ambientata anche a Bargagli, piccolo paese dell’alta val Bisagno, sulle alture prossime a Genova. Il paese è stato teatro di vicende particolari legate agli ultimi giorni del secondo conflitto mondiale.
Dunque, Sforza lascerà momentaneamente la sua Milano e l’amata Bonassola per Bargagli?
Assolutamente no. Milano è il suo “quartier generale” e Bonassola il luogo del cuore. Chi ha avuto modo di apprezzare queste due ambientazioni non rimarrà deluso anche nel secondo libro.
Torniamo a te in qualità di autore. Mi sbaglio o non sei uno che fa molte presentazioni?
Non sbagli. Devo dire che non le ho mai amate, pur avendone fatte moltissime, specie negli anni addietro. Con il tempo ho compreso che al di là dell’aspetto promozionale, il mio ruolo non è quello di salire in cattedra o di mettermi sotto i riflettori. Credo che “bastino e avanzino”, come si dice, i miei libri. Qualche presentazione la faccio, ma non più in presenza.
Sei per caso timido?
Un tempo lo ero. Adesso direi tutt’altro, ma credo nel pudore. Non ho velleità di protagonismo. In un’epoca in cui tutti cercano, spesso con affanno, visibilità a tutti i costi, io non sento questa necessità. Non a caso rifuggo l’utilizzo di certi strumenti per riversare sugli altri la propria opinione.
Ti riferisci ai social?
Sì. Li considero uno strumento eccezionale per la promozione dei libri. Da tale uso possono derivare anche rapporti che si instaurano nel tempo, specie con i miei lettori e ciò mi fa solo piacere. Utilizzare questi strumenti per far conoscere il proprio punto di vista, spesso affrontando ogni tipo di argomento, è una pratica che evito. Esiste ancora una vita, reale, fatta di amici, di persone fisiche, con le quali confrontarsi.
Però, tornando alle presentazioni, ho visto che le più recenti le hai fatte tramite le piattaforme, ovvero a distanza. Come ti sono sembrate?
Nelle presentazioni a distanza ho trovato molti aspetti positivi, rispetto a quelle tradizionali in presenza. Innanzitutto, è sempre più difficile per molte persone essere presenti ad un evento il dato giorno e ad una data ora e le cause risiedono negli impegni di ciascuno. La presentazione si trasforma il più delle volte in una fantozziana rincorsa a trascinare più persone possibile nel giorno prestabilito, sperando di mettere insieme una platea dignitosa di spettatori. Preferisco lasciare la libertà, a chi interessato ad un libro, di potersi vedere la presentazione tramite i social, magari nelle ore e nei giorni successivi, nel momento che gli è più congeniale.
Ti capita di partecipare alle presentazioni di altri autori?
Non ne ho il tempo, ma nemmeno la voglia. Non andrei nemmeno alle mie, se è per questo. Ripeto, ritengo che i libri che scrivo siano più interessanti del sottoscritto e non lo dico per una questione di falsa modestia o per fare il virtuoso. Preferisco uscire, farmi un giro in moto o vedermi con gli amici che raccontare ciò che il lettore trova già tra le pagine del libro. Senza offesa per nessuno.
La passione per le moto è evidente visto che ne hai addirittura una nel tuo studio. Hai una passione per le Ducati scommetto? (Una rossa bolognese è infatti presente accanto alla sua scrivania).
La moto è sempre stata il mio sogno fin da bambino e rimane ancora oggi un qualcosa di emozionante. Quella che vedi nel mio studio è stato il promo modello di Ducati che ho posseduto, una Super Sport 900, ma devo dire che le moto mi piacciono quasi tutte, stradali, enduro, sportive, custom. Pur usandola poco, non ne posso farne a meno. Oggi prediligo le Harley Davidson per spostarmi. Implicano un approccio motociclistico per il quale il quale la ricerca delle prestazioni in termini di potenza e velocità passa in secondo piano rispetto all’estetica e al piacere di guida. E poi subentra una questione affettiva. Fu mio nonno Edmondo a regalarmi la prima moto, una Ducati appunto. Lui però era un estimare delle Harley. Durante i suoi viaggi negli Stati Uniti mi raccontava di quando le vedeva e ne rimaneva affascinato. Io da ragazzo non le consideravo neppure e ora mi ritrovo a distanza di più di vent’anni a pensare che invece aveva pienamente ragione. Mi spiace solo che non abbia potuto vedermi in sella ad una Harley Davidson…
Torniamo ai libri. Hai affrontato vari argomenti. Dalla Milano sotterranea, ai mercenari italiani, passando per gli anni di piombo. Come mai?
Semplice curiosità. La curiosità di voler conoscere o approfondire determinati argomenti è alla base della mia attività da sempre.
Qualcuno potrebbe pensare che talune pubblicazioni siamo frutto di tue simpatie politiche. Confermi?
La politica, con le sue dinamiche, è diametralmente opposta alla mia persona. La curiosità e l’interesse, soprattutto dal punto di vista giornalistico e umano, non sono da confondere con altro. Mi si può accusare di aver trattato argomenti che per alcuni sono tabù o di essermi rapportato a personaggi “scomodi” se non addirittura “non degni” di ricevere attenzioni. Personalmente ho sempre scelto liberamente gli argomenti da trattare, senza sentire il dovere di giustificarmi. Tantomeno non ho mai dovuto adattare i miei scritti a esigenze editoriali, di partito o di opportunità. Rispondo solo a me stesso e alla mia coscienza.
Dunque, se ti chiedo di parlare di politica, dell’attuale situazione italiana non mi rispondi?
Preferisco parlare di moto o di altro. (Su questo Ippolito appare irremovibile)
Torniamo alle tue pubblicazioni. Hai pubblicato con varie realtà editoriali, piccole, medie e grandi. Che differenze hai trovato e con quali ti sei trovato meglio?
Il discorso è complesso. Ogni editore ha i suoi aspetti positivi. Vorrei sfatare un luogo comune. Pubblicare con un grande editore non rappresenta una svolta o un cambiamento per un autore. Un medio o piccolo editore, ma con un’ottima distribuzione e attivo nella promozione, può risultare determinante nel successo di un libro, anche rispetto a certi colossi editoriali. E poi c’è il fattore umano che è determinante.
Che cosa intendi?
Il rapporto tra autore ed editore. Negli anni, avendolo sperimentato in modi diversi, mi sono reso conto che il rapporto umano non ha prezzo. Poter telefonare al proprio editore per confrontarsi e parlare reciprocamente senza alcun tipo di problemi è la cosa migliore che possa capitare ad un autore.
Che rapporto hai con i colleghi?
Sono uno che fa vita “ritirata”, se così si può dire. Lo scrittore è un lavoro solitario, almeno per come lo concepisco.
C’è qualche scrittore che ami in modo particolare o al quale ti sei ispirato?
Sono un estimatore di Valerio Evangelisti e di Mauro Corona, due autori contemporanei, molto diversi fra loro, ma eccelsi. E poi amo Buzzati, Malaparte, Eco, gli statunitensi Edgar Allan Poe, Howard Phillips Lovecraft e Robert E.Howard, quest’ultimo padre di Conan e di altri personaggi e cicli memorabili.
Cosa significa per te scrivere?
Dare sfogo alla mia fantasia. Cercare di regalare a me stesso e poi ai lettori momenti di svago, di puro intrattenimento.
Solo intrattenimento?
Dipende. Non pretendo di suscitare riflessioni su determinati aspetti della vita, ma se succede ben venga. La lettura è un qualcosa di troppo personale e intimo per subire condizionamenti. Lo scrittore propone, il lettore legge e trae qualcosa di suo.
Progetti imminenti o futuri?
Ho appena terminato la stesura de I diavoli di Bargagli. Tempo di riprendermi e penserò al terzo romanzo della “saga” del banchiere. Il tutto però senza fretta. Un po’ come quando si va in giro con una bicilindrica di Milwaukee
In sintonia con la maggior parte delle risposte, soprattutto in campo editoriale.
Ricordo ancora con un groppo quando ti chiamava paternalmente “immondo”
Grazie delle tue parole, me lo ricordo bene anch’io, con una certa emozione, quando vedevo la chiamata in arrivo e mi preparavo a sentire la sua voce inconfondibile.