Mercenario e me ne vanto
Ippolito Edmondo Ferrario
Secolo d’Italia
13 luglio 2006
Nulla è più bello dell’uomo quando avanza. Il soldato che esce dalle file e si dichiara volontario. Il torero che si strappa fuori dal burladero, scaccia i suoi peones e si spiega la cappa. E l’immagine ingenua del cow boy che entra nel saloon, fende l’adunanza pietrificata e si dirige verso il bar. Tutto scricchiola nel cuore degli altri uomini quando uno di loro si fa avanti di due passi, si stacca dalla fila e così foggia intorno a sé una barriera invarcabile di rispetto. Le madri e le fidanzate supplicano e non capiscono che possono avere per rivale la morte. “Non farti avanti! Torna indietro!”. Troppo tardi. Il figlio o l’amante ha udito l’incredibile appello di un altro amore e volge verso le donne un viso d’ombra, uno sguardo vuoto. “Non ci conosce più” urla la madre. È vero. Lui non è più lo stesso, da quando si è fatto avanti. Non ha più un passato. Donne, vi è straniero perché egli ha scelto di nascere una seconda volta ed è uscito, in quell’istante, da se stesso e non dalle vostre viscere. L’eroismo: selvaggia creazione di sé a opera di se stesso, dell’uomo a opera dell’uomo. Così scriveva lo scrittore francese Jean Cau nel suo “Il cavaliere la morte il diavolo” (Ciarrapico Editore, 1985) cogliendo lo spirito più autentico del guerriero, di colui che al di là delle bandiere, abbandona le certezze del vivere quotidiano per andare incontro ad un destino incerto, che presagisce come foriero di morte, ma al quale non può resistere. Questo atteggiamento inconscio, dominato dall’oscuro fascino esercitato dalla signora con la falce, è lo stesso ispirò il romanzo di Daniel Carney “I Quattro dell’oca selvaggia”, pubblicato nel 1977. Cambiano gli scenari, alla spada e all’usbergo del cavaliere di Cau, si preferiscono bombe a mano e mitra, e si va a “cercar la bella morte”, possibilmente lontano da casa. Questi combattenti di ogni epoca e di ogni campo di battaglia rifuggono la vita borghese, l’illusione di poter sfuggire al destino mettendosi al sicuro; il solo modo che hanno per vivere è quello di non fermarsi mai, di non mettere radici. Gli stessi ambienti della destra italiana subiscono il fascino della figura del mercenario; se la sinistra guardava al Che, nel 1968 Pino Caruso cantava “Il mercenario di Lucera”, l’inno antiborghese per eccellenza. È la stessa filosofia dei pistoleri de “Il mucchio selvaggio” del regista Peckinpah che di fronte alla prospettiva di andare incontro alla morte, rispondono: “Perché no?”. Carney con “I quattro dell’oca selvaggia” mette in scena la figura dei mercenari, che ben conosce anche attraverso le sue vicende personali. Lo scrittore infatti nasce in Libano nel 1944 e dopo aver condotto i propri studi in Inghilterra si stabilisce nella tormentata ex Rodhesia, oggi Zimbawe. Il quadro psicologico che l’autore adotta per i protagonisti della sua storia è dominato da un profondo disadattamento nei confronti della vita civile che tutti hanno intrapreso dopo il mestiere delle armi. Ci troviamo di fronte all’atavica difficoltà dell’inserimento dei reduci nella cosiddetta società civile, sentimento sul quale, pochi anni dopo, David Morrell baserà la figura del reduce per più popolare del mondo, John J. Rambo interpretato per la pellicola cinematografica da Silvestre Stallone. Carney però, influenzato da decenni di guerre sul suolo africano, ipotizza una storia che non si discosta di molto dalla realtà: un uomo d’affari inglese, Sir Edward Matherson, che rappresenta gli interessi di un gruppo bancario, chiede al colonnello Allen Faulkner (con il volto di Richard Burton) di mettere insieme una forza mercenaria per liberare Limbani, deposto capo politico congolese e avversario dell’attuale generale golpista Ndofa che con la sua politica di statalizzazione delle miniere di rame sta nuocendo agli investimenti anglosassoni. Inizia così la prima parte della storia, segnata dall’incontro con i vari personaggi che faranno parte della missione. L’universo dei mercenari è variopinto: si va dallo scapestrato playboy, Shawn Fynn tenente pilota e assiduo frequentatore di night (interpretato da un giovane Roger Moore), al capitano Rafer Janders, che sopravvive facendo il corriere per un’organizzazione malavitosa alla quale si ribella, uccidendone atrocemente il rampollo, quando scopre di trafficare in droga. Quest’ultimo poi si porta appresso il peso di un matrimonio fallito e la responsabilità di un figlio ancora piccolo che mantiene in una scuola svizzera. Il rapporto tra padre e figlio, le difficoltà a comunicare l’affetto, mutano con l’imminente partenza del padre per la missione e la sua ultima visita al ragazzo. I mercenari di Carney sfuggono ai dolori della vita andando in guerra; i soldi diventano un pretesto. Ci si commuove nel leggere del mal d’Africa provato dal mercenario Peter Coetzee, con un passato da esploratore nella valle dello Zambesi che lo hanno portato sull’orlo della follia: “Sono vissuto in una grotta, con poche interruzioni per diciotto mesi. Non uscivo mai quando faceva chiaro, strisciavo solo al buio. E uccidevo, uccidevo. Quasi sempre da molto vicino: così li vedevo, sentivo l’odore della loro paura” racconta al suo commilitone davanti a una birra in una bettola londinese. In questi uomini però, dietro la spietatezza mostrata battaglia, si annida una profonda umanità: è sempre Coetzee a rifuggire la sua condizione di predatore di uomini rimpiangendo il ruolo iniziale di guardiacaccia al quale era destinato “…mi ero sempre visto come uno che protegge le cose, non uno che le distrugge”. Ognuno di loro ha in tasca un sogno che lo aiuta a rimanere a galla: Coetzee spera solo di rivedere la sua Africa, Janders con i soldi dell’ingaggio vorrebbe comprare una fattoria e con essa l’illusione di una vita tranquilla insieme al figlio. Lo stesso Tenente Finn, prossimo alla missione, durante una delle libere uscite, s’innamora di una prostituta che rischia di compromettere la sua determinazione. Il distacco dalla donna è sofferto, ma in questo caso il nuovo amore sarà la motivazione necessaria per riportare a casa la pelle. Nella realizzazione cinematografica il regista Andrew W. McLaglen si affidò alla supervisione di uno che la guerra la conosceva bene e ce l’aveva nel sangue: Thomas Michael Bernard Hoare, celebre mercenario irlandese, al quale Carney si ispirò anche per il titolo del libro: infatti il Gruppo Cinque, composto dai mercenari agli ordini di Hoare, aveva per emblema un’oca selvaggia, già adottata dai mercenari irlandesi del diciottesimo secolo. Se Carney per scrivere la storia non aveva dovuto ricorrere alla fantasia, allo stesso modo le vicende cinematografiche si intrecciarono con la realtà, con risvolti incredibili. Il set del film cementò l’amicizia tra “Mad Mike” Hoare e l’attore italiano Tullia Moneta; i due, nel 1981, tre anni dopo le riprese, s’imbarcarono in un tentativo andato poi a vuoto di colpo di stato alle isole Seychelles. Lo stesso Hoare, intervistato a proposito, ironicamente aveva detto: “Avrei dovuto portare con me Richard Burton e Roger Moore, e avremmo avuto un lieto fine”. Naturalmente non si può non guardare ad un’altra figura leggendaria che senz’altro influenzò Carney con le sue vicende rocambolesche: il mercenario Bob Denard, classe 1929, che dopo aver combattuto tra le fila della Legione Straniera francese in Indocina, costruì la sua fama di eroe portando in salvo la popolazione bianca presente in Congo Belga nel 1961 durante la secessione. La sua epopea mercenaria toccò l’apice con la conquista delle isole Comore nel 1976 sui cui mantenne il potere fino al 1989. Carney per i suoi mercenari prevede un’ulteriore prova, ovvero l’impiego sul campo di battaglia attraverso un lancio notturno col paracadute. Il portellone dell’aereo che si apre sul vuoto, l’affidare la propria vita a un pezzo di stoffa tenuto insieme da cordicelle, è sinonimo di una scelta che non ammette ripensamenti. È lo storico Dominique Venner, combattente d’Algeria, a riassumere in poche parole la metamorfosi spirituale che si conquista attraverso il lancio: “Il parà è un iniziato. Ha subito delle prove che fanno di lui un altro uomo. Ha scoperto il segreto dell’ordine. È il depositario del Graal”. I mercenari di Carney cadono uno dopo l’altro, uniti dal medesimo destino, traditi da Mattherson che in nome di repentini mutamenti politici, decide di annullare la missione e di lasciarli al loro destino. Soli e braccati dai sanguinari guerrieri Simba agli ordini del generale Ndofa scelgono la morte in battaglia. Si battono con sprezzo fino all’ultima pallottola, contro le forze nemiche soverchianti per numero. I pochi superstiti che riescono a mettersi in salvo hanno negli occhi la morte dei camerati; tra loro, nella carlinga del Dakota pilotato da un capitano Fynn, morente c’è Limbani, il leader politico, obbiettivo della missione; gravemente malato, è sopravvissuto alla morte grazie al sacrificio del mercenario Mctaggart che dopo l’iniziale diffidenza razzista abbraccia la causa di Limbani giurandogli fedeltà. Sarà proprio quest’ultimo a veder morire il mercenario “razzista” e a piangerne la morte con “grandi lacrime silenziose”. La versione cinematografica del romanzo ha la sua conclusione nel ritorno a Londra di Faulkner deciso a vendicare i suoi uomini e lo farà uccidendo sir Matherson. Carney invece, fedele alla filosofia mercenaria rifuggirà il lieto fine lasciando morire Faulkner sul campo di battaglia.
bob denard mai sato nella legione
Hai ragione Robert, ma ero giovane e inesperto…Abbi un po’ di comprensione!